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La Bottega del Vasaio

Il blog di don Cristiano Mauri. Di Umanità e di Vangelo.

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In fila, pelle a pelle.

Gennaio 11, 2015 //  by don Cristiano Mauri

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Ed ecco, in quei giorni, Gesù venne da Nàzaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba. E venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento». (Mc 1, 9-11)

Folla

Amo il Suo stare in fila con me, schiacciato nella folla. Lo fa d’abitudine. Dal Battesimo al Giordano in poi sembra sia diventata la Sua missione vera e propria. Ma ho come l’impressione che fosse un’attitudine fin da ragazzo.

Quando dodicenne rimase a Gerusalemme mettendo in ansia Maria e Giuseppe non fu per ribellione, tanto meno per sbadataggine. Fu per passione. L’umano già Lo catturava con invincibile forza. Tornare a casa? Quella folla pasquale era già la Sua casa. Il Suo agio, il Suo orizzonte, il Suo naturale habitat.

Non seppe resistere, come fa un affamato davanti a un “ben di Dio”. Fu per Lui naturale perdersi tra i volti, le voci, i colori di quella folla. La sorpresa è trovarLo in ascolto dei dottori. Impegnato – mi piace pensare – ad ascoltare anzitutto gli uomini prima della verità che intendevano insegnare.

Che quel «occuparsi delle cose del Padre Suo» sia proprio questo? Impastarsi di umanità, imbeversi delle cose degli uomini è affar di Dio. D’altronde quell’uomo è immagine Sua. Cercare il Padre, cercare l’uomo: un unico comandamento.

E me Lo ritrovo qui in fila con me, mischiato alla gente insieme a me. Vedo che gli piace. Si guarda in giro curioso. Osserva, ascolta, commenta, sorride, si acciglia. Si capisce che questo è il Suo posto.

Il deserto, la solitudine, il silenzio in solitaria compagnia col Padre Suo sono come un retrobottega dove portare i pezzi di umanità raccolti e ricomporli, ordinarli, ripulirli, ricondurli alla dimensione originale.

Ma il Suo luogo non è il Tabor della Trasfigurazione bensì Betlemme, Cafarnao, Nazareth, Betsaida, Tiberiade, Gerusalemme. E Lui ci torna ogni volta, potentemente attratto dal volto dell’uomo in cui rivedrà il Padre.

Mi consola vederlo così a Suo agio. Sento il contatto della sua pelle e so che Lui sente il mio, il nostro. Non se ne ritrae, spinge e viene spinto.

Sembra persino divertirsi cercando il contatto fisico, pelle per pelle, carne per carne. Come volesse ascoltare con tutta la profondità possibile che cos’è essere uomo. Come con il cieco nato, il sordomuto, la suocera di Pietro, il lebbroso.

Un’urgenza di solidarietà e compartecipazione. Nella folla si mescolano gli odori e gli umori, buoni e sgradevoli. Non ne fugge. Io sì che ne fuggirei da quest’umanità appiccicosa, ma Lui sembra volersene impregnare.

Gente

Amo questo Suo schiacciarsi contro di me. Lo fa con meticolosità e attenzione, preoccupato che nulla di me, di noi, rimanga a Lui nascosto o precluso. Non Lo spaventano le brutture e le bassezze che ognuno ha con sé. Anzi a volte sembra maniacale nel voler arrivare proprio a quelle.

E’ uno di noi. Innegabilmente uno di noi. Se non sapessi di dire il falso, direi persino un peccatore come noi. E credo che alla fine non Gli dispiacerebbe nemmeno. Chi Lo distingue ormai nella folla? Si è imbevuto d’umanità senza distinguo né mezze misure. Da non credere che sia il Figlio di Dio.

Mescolato nella folla riascolto quella voce: «Questi è il mio Figlio. Colui nel quale mi riconosco». Amo questo Dio che si mescola con me, si mescola di me. La mia fragile miseria è la Sua casa. Si è impregnato di me.

Ha il mio odore e il mio sapore. Le mie risa, le mie lacrime, le mie fatiche, le mie gioie, i miei pensieri, le mie emozioni, le mie grandezze, i miei peccati. Tutto è suo, per volontà sua. Nulla di me che non lo tocchi, anzi: nulla di me che Lui non voglia toccare. La mia umanità è degna del Figlio di Dio. Amo questo Dio, totalmente altro da me, totalmente impregnato di me.

Per Lui e con Lui sto volentieri nella folla che Lui ama. Lo troverò lì, non altrove.

Me lo dice ogni volta che mi ritraggo dall’umano – il mio e quello altrui – con una nostalgia struggente che viene a stringermi il cuore. Me lo ricorda ogni volta che guardo al deserto come a un nascondiglio: il deserto è una partenza non un approdo, mi ripete.

Quest’uomo è casa Sua. Quest’uomo è casa mia e io ci sto.

Un giorno o l’altro, in mezzo alla folla, a furia di averLo schiacciato addosso, ci scopriremo impregnati di Lui. E sarà meno difficile amarci l’un l’altro.

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