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La Bottega del Vasaio

Il blog di don Cristiano Mauri. Di Umanità e di Vangelo.

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Dio mio perché mi hai abbandonato?

Aprile 3, 2015 //  by don Cristiano Mauri

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Prima Parola

Sette sono le frasi pronunciate da Gesù sul patibolo della Croce. Messe in fila, paiono spezzoni giustapposti senza alcun nesso logico. Eppure, una lettura meditata e attenta non può non cogliere una sostanziale unità di fondo che dà alle sette frasi quasi la parvenza di un testamento finale da parte del Cristo. Scorrendole una ad una si odono risuonare in esse i contenuti peculiari dell’annuncio evangelico, che vedono il loro culmine proprio nella Pasqua di Gesù.

In questo post, la prima di sette meditazioni di approfondimento a ciascuna delle parole: il Legno della Croce prende voce reagendo in prima persona alle diverse espressioni del Crocifisso.

In ciascuno dei sette posts puoi trovare il monologo del Legno sia in forma testuale che nella versione audio recitata, accompagnato da un’immagine artistica a sua volta corredata da un breve commento utile alla comprensione e alla riflessione.

La voce del Legno della Croce è di Giancarlo Cattaneo, Speaker di Radio Capital. La scelta delle opere d’arte e il relativo spunto critico sono di Elena Camminati. I testi di don Cristiano Mauri.


«Dio mio, perché mi hai abbandonato?»


Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Alle tre, Gesù gridò a gran voce: “Eloì, Eloì, lemà sabactàni?” , che significa: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: “Ecco, chiama Elia!”. Uno corse a inzuppare di aceto una spugna, la fissò su una canna e gli dava da bere, dicendo: “Aspettate, vediamo se viene Elia a farlo scendere”. (Mc 15, 33-36)

Grida ancora! Gridalo di nuovo! Gridalo più forte!
Non permettere a questo silenzio di ferirti più delle botte, più delle frustate, più dei chiodi.
Avverto il sapore disgustoso del rifiuto e dell’indifferenza fare a brandelli la tua anima.
L’ombra cupa di un destino nemico che volge lo sguardo altrove agghiaccia il tuo cuore.
Urla più forte! Perché non gridi ancora, ancora e ancora fino a squarciare quel cielo ostinatamente silenzioso e gelido?

Io la sento. Sento la tua carne che si rivolta al vedersi buttare via così.
Avverto il tuo corpo che urla nel sentirsi poco più di un rifiuto.
Vedo la tua umanità resistere al fatto di essere ormai solo materiale di scarto.
La solitudine dell’abbandono, la mancata risposta, l’assenza del volto dell’altro: questa è la morte più vera.
È il non senso assoluto, il distillato della disperazione, il precipitato puro dell’abiezione.

Sentire di non appartenere più a nessuno, di non avere più alcuno su cui poter contare, di non avere più nulla per cui valga la pena di essere.
Solo il desiderio di sparire, di non essere più, di non essere nemmeno mai stato.
Dimenticare, essere dimenticato, diventare del tutto oblio. Diventare solo buio.

Dagli voce, lascia che sia straziato anche quel Cielo così immobile, così spettatore da sembrare complice.

Chi ti ha inchiodato a me sa bene la potenza del rifiuto.
Loro, sordi per primi alle tue parole, speravano proprio questo: un Cielo di ghiaccio.
Volevano questa evidenza: «Vedete? Nessuna risposta, anche Dio lo rinnega!».
Una Terra sorda e un Cielo muto.
Perché, invece che rigettare l’ingiustizia di questo abbandono, semplicemente taci?

Dopo quel grido ti sei irrigidito.
Ma non è ancora il rigore della morte.
Sento piuttosto i tuoi muscoli tendersi come sotto uno sforzo crescente.
Il respiro si fa più affannoso e i gemiti si moltiplicano.
Non è il rantolo di un morente, sembra piuttosto lo sforzo agonistico di un combattente.

Stai lottando.
Ti opponi a una forza di cui non comprendo l’origine ma che pare mille e mille volte più potente della gravità che lentamente ti ruba l’alito vitale.
Ti tieni, ti trattieni, come se stessi resistendo a qualcosa, o a qualcuno, che cerca di strapparti a questa trave e a questi chiodi.
Non è una lenta inesorabile agonia.
Oltre le immediate apparenze, nel cuore del dramma dell’abbandono non resti per costrizione.
Bensì per volontà.
Drammaticamente, dolorosamente, fortissimamente scegli tu di restare.

Ti aggrappi a me come all’ultimo appiglio possibile.
Siamo tutt’uno.
Legno più del legno, su questo patibolo lotti per rimanere.

Il Cielo muto, la Terra sorda e il tuo dolore sospeso tra l’uno e l’altro stanno infrangendo il volto di dio.
Muore la divinità tutta umana della giustizia sommaria, dell’intervento punitivo, della rappresaglia violenta.
Va in pezzi il dio scontato e prevedibile del dare per avere, del merito come mazzetta della protezione divina, della pietà come gettone del suo intervento.

La tua lotta scolpisce invece i lineamenti del Dio vero.
Vibrano le tue membra di una forza inaudita. La sua.
Nel tuo aggrapparti a me, Dio si stringe all’umanità che lo respinge.
Silenzioso, paziente, determinato.
Come un amante, un padre, un figlio.
Questa è la sua battaglia, la tua lotta è la sua lotta.
Tu in lui, lui in te.
L’uno e l’altro inchiodati per questo legno a quell’umano che ai vostri occhi é un tesoro inestimabile.

Mentre muore il dio fatto dalle loro mani. Nasce qui, di nuovo e sempre, l’Amore che può ogni cosa.
E se quest’Amore nasce morendo, non può che essere l’unica vera, divina, eterna salvezza.

Taci dunque, Gesù.
Resisti ancora.
E se non dovessi farcela più, non temere, ti terrò io.


Edvard Munch,  La madre morta e la bambina, 1899 Munch Museet, Oslo

L’abbandono è lo strazio della solitudine. Lo spazio è buio e fondo; tanto grigio e profondo da sembrare vuoto. Vuota è questa stanza chiusa e opaca perché dice il sentirsi soli, profondamente soli. L’amore della mamma è un fantasma bianco e immobile nel letto in secondo piano e gli altri fantasmi scuri sono in fondo, persi anche loro nella loro solitudine muta e incomunicabile. E’ l’angoscia disperata del sentirsi perduti, schiacciati da un vortice di vuoto da cui fuggire, chiudendo le orecchie e spalancando gli occhi. Gli occhi sbarrati nel vuoto della paura e del baratro. Il rosso del sangue che esce come la vita dal corpo della mamma sporca il pavimento sotto il letto e diventa una stessa macchia con il vestito della bambina che, disperata e sola, si volta verso lo spettatore, urla muta il suo dolore altrove, lontano e fuori dalla scena. Perché non vuole vedere quell’ atroce abbandono provocato dalla morte.

L’abbandono è lo strazio della solitudine. Lo spazio è buio e fondo; tanto grigio e profondo da sembrare vuoto. Vuota è questa stanza chiusa e opaca perché dice il sentirsi soli, profondamente soli. L’amore della mamma è un fantasma bianco e immobile nel letto in secondo piano e gli altri fantasmi scuri sono in fondo, persi anche loro nella loro solitudine muta e incomunicabile. E’ l’angoscia disperata del sentirsi perduti, schiacciati da un vortice di vuoto da cui fuggire, chiudendo le orecchie e spalancando gli occhi. Gli occhi sbarrati nel vuoto della paura e del baratro. Il rosso del sangue che esce come la vita dal corpo della mamma sporca il pavimento sotto il letto e diventa una stessa macchia con il vestito della bambina che, disperata e sola, si volta verso lo spettatore, urla muta il suo dolore altrove, lontano e fuori dalla scena. Perché non vuole vedere quell’ atroce abbandono provocato dalla morte.

Puoi trovare a questo link le altre sei parole: Le Sette Parole


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