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La Bottega del Vasaio

Il blog di don Cristiano Mauri. Di Umanità e di Vangelo.

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Accoglienza e rifiuto.

Dicembre 7, 2020 //  by don Cristiano Mauri

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L’aria della casa di Abramo era tossica.
Del padre Terach si sa poco, ma dal racconto biblico si intuisce lo stile possessivo del suo governo familiare.
Padre e padrone di un clan di cui era il proprietario più che il buon custode.

Un capo egocentrato e totalizzante al punto da chiamare un figlio «Avram», che vuol dire: «il padre sarà esaltato».
Un luogo asfissiante, inospitale e sfavorevole alla vita, quella famiglia.
Non sono un caso la morte di Aran, fratello di Abramo e la sterilità di Sarai, moglie di quest’ultimo.

Da quella terra inospitale Abramo deve andarsene o non ci sarà vita per lui: «Vattene verso te stesso» gli dice Jahvé.
Un’altra terra, un’altra famiglia, un figlio, nazioni su nazioni. Un’altra vita.

Ma i cromosomi non mentono e l’educazione neppure.
Abramo lo stile possessivo, manipolatorio e totalizzante del padre ce l’ha nel sangue e nella carne.

Userà la moglie offrendola al faraone per salvarsi la pelle.
Si procurerà un figlio su invito di Sarai forzando la mano al Signore.
Non esiterà ad allontanare la schiava con cui aveva generato Ismaele.

Ma il figlio della promessa di Dio non arriva.
D’altronde, in quel monolite che è Abramo non c’è vero spazio di accoglienza.
C’è volontà di affermazione e di dominio.
Non v’è traccia di ospitalità.

Occorre una spaccatura in quest’uomo tutto d’un pezzo.
Un’apertura in cui un’altra vita possa essere accolta.

Si lascerà circoncidere, Abramo.
Accetterà di essere un uomo ferito e mancante, un uomo debole e incompleto che non può più dominare, affermarsi e prendere ciò che vuole.

Potrà solo accogliere e ospitare.
Diventerà un’apertura in cui la generazione che Dio gli ha promesso troverà il passaggio per entrare nel mondo.

Un uomo nuovo che alle Querce di Mamre considererà una grazia poter ospitare qualcuno.
È l’alleato libero e mite di Dio al quale non temerà di riconsegnare il figlio Isacco, che scenderà dal monte Moria sciolto non solo dalla legatura del sacrificio, ma anche da ogni possibile vincolo soffocante con il padre.


Accogliere non può essere una manifestazione di forza, ma un gesto di fragilità e debolezza, con il quale ci si riconosce mancanti e fortunati beneficiari del dono che l’altro rappresenta.

L’accoglienza non è esibizione delle proprie capacità di cura e di servizio.
Quando lo è, diventa un atto di prepotenza e di manipolazione del prossimo, usato come palcoscenico delle proprie virtù.

L’ospitalità muove dall’accettazione del proprio limite e dalla decisione di far di sé uno spazio libero e agevole, dove l’altro possa essere ed esprimersi per ciò che è, senza pretese e senza commerci di sorta.

Non si accoglie invadendo il terreno dell’altro con l’ostentazione di tutto ciò che si può o si sa fare per lui, ma liberando il campo della propria esistenza, mantenendo aperti i pertugi attraverso cui il prossimo possa entrare e prendere dimora.

Quasi sempre proprio attraverso le parti di noi più fragili e ferite.


Non è cosa facile accettare il proprio limite e abitare la propria debolezza.

Fa paura. Ci si sente insicuri e costantemente in pericolo. Cosa farà l’altro? Ci colpirà? Approfitterà di noi?

Brutta bestia l’insicurezza, fa irrigidire e chiudere i boccaporti della nostra umanità.

Ci si rifiuta di accogliere spesso per questo. Perché si teme la propria debolezza e non si sopporta la propria fragilità.

Quello, che è il vero terreno dell’accoglienza, ci pare impraticabile e troppo insidioso.

Meglio essere prudenti.


Quando Gesù manda i suoi in missione, la prima raccomandazione che fa loro è di imparare ad accogliere lasciandosi accogliere.
Dovranno andare senza nulla, disarmati e spogli, contando solo sul buon cuore di chi li ospiterà.

Andranno ad annunciare il Vangelo e il primo annuncio sarà proprio l’essere ospitati, piuttosto che mostrare i muscoli della loro capacità di accoglienza.

Potranno e dovranno toccare con mano quanta abbondanza di bene li precede e quanti animi buoni anticipano il loro annuncio.
Non dovranno recare disturbo, chiederanno permesso, accetteranno quel che sarà loro dato.

Il Dio che servono è uno che bussa delicatamente e piuttosto che esibire la propria potenza ospitale, valorizza umilmente le risorse dell’altro.

Annunceranno un Dio che ospita l’umanità chiedendo ospitalità, ricevendola come un povero accoglie un dono e gustandola come fa un bambino con un abbraccio materno.

I discepoli incontreranno anche il rifiuto, però, e dovranno accogliere pure quello facendogli spazio.
Dovranno dare a chi incontreranno la possibilità di respingerli ed essere per loro lo spazio di quella libera scelta. Rispettandola e riconoscendola.

Ospitare anche il rifiuto. Paradossale, no?

Una contraddizione così incomprensibile che tenteranno altre strade, come quando chiederanno a Gesù di far scendere un fuoco dal cielo per consumare coloro che non li hanno accolti, o come quando cercheranno di aprirsi un varco con la spada nel muro dei soldati venuti a respingere definitivamente Gesù.

Ma il Maestro chiederà altro. Accettare la debolezza e ospitare anche l’ostilità.


Il bambino che nasce a Betlemme fin da subito racconta questo Dio.

V’è chi lo accoglie ed è proprio l’umanità debole e ferita, i marginali e i poco di buono come i pastori di quella notte.

C’e anche chi lo rifiuta fino a cercarne l’eliminazione, dalla strafottente pienezza e potenza dei palazzi di corte.

Resterà bambino tutta la vita.
Con i piccoli si identificherà e chiederà ai discepoli che vogliono varcare la soglia del Regno, di percorrere la via della debolezza e della fragilità.

Il bimbo di Betlemme narra l’onnipotenza di Dio come la sua capacità di mettere un argine alla propria forza e di non essere nella vita degli uomini una ingombrante strapotenza.

Come la Sua decisione di farsi debole e ferito, perfino, in un certo qual modo, mancante.

Così è la forza della sua misericordia: essere spazio accogliente anche del nostro rifiuto.

Un Dio così lo si accoglie quando la fede assomiglia più al vuoto delle nostre pochezze che al pieno esibito delle nostre capacità di essere alla sua altezza.

Anche perché, se proprio vogliamo essere alla sua altezza, dovremmo prepararci a stare molto in basso.

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