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Il Cristo che entra a Gerusalemme cammina verso la Morte.
L’unguento di Betania ne maschera per qualche istante ancora l’odore pungente.
Il suo ringhio feroce si disperde tra le grida degli osanna.
La folla che si ammassa nasconde il dramma solitario del momento estremo.
Ma il Cristo che entra in Gerusalemme cammina verso la Morte che lo attende.
Lo fa su una bestia da soma, un animale da fatica.
Quello degli spostamenti ordinari, dei viaggi di lavoro e di cortesia, del feriale fare e disfare.
Ci va così, il Cristo, a morire.
Entra a Gerusalemme in groppa all’ordinario mestiere di vivere.
Non c’è straordinarietà nel gesto.
Un modo spoglio e feriale di andare che per lui non è certo un’eccezione.
È la sostanza quotidiana della sua missione.
Si è fatto Messia passo passo, imparando e praticando il comune mestiere del vivere umano.
In un modo così anonimo e scontato da essere invisibile per trent’anni.
E camminare verso la Morte non è per lui un’impresa.
È l’inevitabile. L’umano inevitabile in cui si è immerso.
Non l’eroica condiscendenza di un Dio che benevolmente si concede allo spettacolo.
Non l’esibizione compiaciuta di chi si crede all’altezza di gesti estremi.
Non il presuntuoso atteggiarsi di chi vuol mostrare come si fa a morire.
Il Cristo cammina verso la Morte perché è parte del mestiere di ogni uomo e di ogni donna.
Dovunque si vada, nella vita, si cammina comunque verso la Morte.
Si adorna la via con profumi, la si anima con suoni di festa, la si riempie di compagnia.
Ma si cammina tutti verso la medesima certezza.
E Lui, con noi.
Vogliono farne una cavalcata trionfale, una marcia muscolare.
Sanno ma non vogliono comprendere.
Guardano ma non vogliono vedere.
Se è il Cristo, non può camminare verso la Morte.
E invece.
Dio è un uomo che va incontro alla Morte.
Ci va come tutti.
Avendo distillato la vita per cercarne l’essenza.
Avendo contato i giorni per coglierne la sapienza.
Avendo scavato pozzi per scoprirne le sorgenti della gioia.
Nella sincera, segreta, paradossale convinzione che se la Morte ci attende, è per la Vita che siamo fatti.
Perciò, come ogni altro uomo, il Cristo la combatte, la odia, la ribalta perfino, compiendo a volte l’inaudito.
Ne ha paura, la fugge, la rinvia.
Infine, depone le armi.
Che non sarebbe uomo davvero se insieme al nascere non vedesse il morire.
La Morte colma la misura della sua esperienza umana.
Più di così non si può, più in là non si va.
Umano al colmo.
Non si trabocca senza giungere al colmo.
Non si rompe l’argine della vita senza sbattere contro il terrapieno della Morte.
È al colmo che si tracima verso l’Oltre, rompendo il confine di fango e alito che qui ci contiene.
Il Cristo che entra a Gerusalemme cammina verso la Morte.
Dallo scontro sembra uscirne sconfitto.
Lui come ogni altro.
Il suo cuore si ferma.
Il suo respiro si spegne.
Gli occhi si chiudono.
Le membra si freddano.
Dio è un uomo che si spegne nell’incontro con la Morte.
Dicono di averlo visto vivo, i giorni dopo.
Di più non si può dire.
Dopo la Sua morte, si morirà ancora, ovunque e comunque.
Si continuerà ad averne paura, a soffrire mentre la si affronta, a piangere chi è già stato portato via.
È il mestiere di vivere che ci fa morire, il feriale mestiere di essere uomini e donne.
Non lo dicono i pessimisti.
Lo dicono la carne e il sangue.
Giorno per giorno si giunge al colmo.
Chi prima, chi poi.
Ci si arriva, perché solo al colmo si può tracimare.
E semplicemente, così, ritornare.
È in te la sorgente della vita, alla tua luce vediamo la luce (Sal 32).