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Questa Lectio è stata proposta all'interno di cinque serate di approfondimento dei Vangeli delle Domeniche di Avvento, svolte nella Comunità Pastorale Madonna del Rosario di Lecco.
Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!».
Mentre quelli se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re! Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: “Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via”. In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui.
Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono.
Tutti i profeti e la Legge infatti hanno profetato fino a Giovanni. E, se volete comprendere, è lui quell’Elia che deve venire. Chi ha orecchi, ascolti!». (Mt 11, 2-15)
ASCOLTA L’INTERVENTO:
INDICE DELLA LECTIO:
1. Contesto.
2. Note di comprensione del brano.
2.1. Domande e risposte (vv. 2-6).
2.2. Che cosa siete andati a vedere? (vv. 7-11).
2.3. Il Regno e i violenti (v. 12).
2.4. L’Elia che deve venire (vv. 13-15).
3. Spunti di riflessione.
3.1. Vivere (spunti per la conversione del quotidiano).
3.2. Celebrare (spunti per l’Eucaristia).
3.3. Riconciliarsi (spunti per la Confessione).
Contesto.
La comunità di Matteo, composta principalmente di giudeo-cristiani, si trovava in difficoltà a causa degli scontri con i Giudei. Benché non si possa in effetti parlare di vera e propria persecuzione, si trattava certamente di una situazione di tensione forte e di disagio significativo.
Matteo e la sua gente toccano con mano, in questo modo, la resistenza di Israele alla predicazione di Gesù. Ciò si ripercuote inevitabilmente sul modo in cui l’evangelista struttura il suo scritto, in particolare su come ritrae il rapporto di Gesù con il popolo e i suoi rappresentanti.
Lo scontro e il conseguente progressivo “ritiro” di Gesù da Israele inizia attorno ai capitoli 12 e 13, dove Matteo colloca il conflitto con i farisei e il discorso in parabole dichiarando l’evidente incomunicabilità, a dispetto delle numerose opere miracolose e dell’abbondante predicazione.
Per preparare la crisi con Israele, dandole la giusta profondità e gravità, Matteo “usa” la figura del Battista.
Presentandolo come “l’Elia atteso”, dichiara subito che per il popolo si tratta del passaggio chiave della storia della salvezza. La tradizione vedeva nel ritorno di Elia il segno dell’imminente arrivo del Messia. Dunque Giovanni, con la sua predicazione profetica, è il segnale forte e inequivocabile che una decisione va presa con urgenza rispetto a Gesù e al suo ministero.
Il capitolo 11 è il discorso conclusivo del Messia al popolo, in cui si tirano le somme della prima parte di attività di Gesù. Se le guarigioni, la predicazione, Giovanni Battista non portano a conversione, il giudizio sarà inevitabile, pur mantenendo sempre e comunque aperta la porta al ripensamento.
Dunque il brano che commentiamo, con la figura del Battista, deve essere letto all’interno di questa prospettiva di urgenza, di decisione improrogabile e determinante, di scontro con Israele, di incomprensione nei confronti di Gesù, di volontà da parte sua di accogliere la conversione del popolo.
Il contesto prossimo, richiamato dal v. 1 del capitolo, è il discorso ai discepoli, detto anche «discorso missionario», il secondo dopo quello della montagna. Si tratta di un discorso rivolto non solo ai predicatori itineranti, bensì alla comunità intera, tracciandone così le caratteristiche fondamentali.
L’immagine che ne viene è di una chiesa che nasce dalla grazia, che continua la stessa missione di Gesù nel mondo assumendone la forma di vita, che cammina con il suo Signore lasciandosi giudicare dalle sue parole e nella quale, infine, tutti stanno da discepoli alla scuola dell’unico Maestro.
È una comunità che cammina dentro la storia e dentro le opere di Cristo e da questo viene radunata.
Questi contesti - generale e prossimo - orientano la nostra lettura del brano.
Note di comprensione del brano.
Domande e risposte (vv. 2-6)
Giovanni è stato fatto arrestare da Erode infastidito dai rimproveri ricevuti per la propria situazione matrimoniale. Dalla prigionia interroga Gesù, per interposta persona, circa la sua identità.
L’atteggiamento del Battista non è di immediata comprensione e le opinioni a riguardo sono numerose. La spiegazione più naturale è che il Battista non avesse fin lì preso in considerazione la possibilità che Gesù fosse il Messia, ma sentendo parlare delle sue opere e della sua predicazione si pone la domanda.
Il dato ormai acquisito della presenza di Gesù tra i discepoli del Battista prima dell’inizio effettivo del suo ministero pubblico, unito alla sorpresa di Giovanni a fronte delle opere del Nazareno ci fanno avvertire ancora una volta quanto quest’ultimo dovesse apparire come una persona talmente normale da risultare pressoché anonimo.
Non segni di straordinarietà, non attitudini eccezionali, non elementi di particolare distinzione: l’uomo di Nazaret doveva davvero essere «l’uomo qualunque».
Matteo usa qui il titolo di «Cristo». All’inizio del suo Vangelo aveva presentato il Cristo come il Messia promesso e lungo il suo racconto l’ha poi caratterizzato con uno stile preciso: è colui che si dedica al suo popolo ammaestrandolo, annunciando il Vangelo ai poveri, guarendo i malati, offrendo riscatto ai peccatori.
Giovanni lo interpella chiedendogli, invece, se è «colui che deve venire», con un linguaggio che richiama più la figura del giudice escatologico, cosa che ben si accorda al fatto che nei prossimi capitoli farà la sua comparsa il primo giudizio su Israele.
Il dubbio di Giovanni, considerato il rilievo della sua figura, può apparire problematico. Ma all’interno della dinamica di confronto-scontro tra Gesù e l’Israele che resta scettico, chiuso e riottoso al Vangelo, la domanda del Battista e dei suoi discepoli sa di apertura e di desiderio di conoscenza/comprensione, rappresentando così l’alternativa positiva. Sono, per così dire, la parte di Israele più buona e accogliente che non deve temere il “giudizio” del Cristo.
Gesù non risponde direttamente, si limita a indicare i fatti, invita a considerare ciò che odono e ciò che vedono (le sue parole e le sue azioni).
L’ascolto viene anteposto e non è un caso. Ai discepoli del Battista deve bastare ciò che Gesù descrive e che costituisce un breve sunto di tutto ciò che ha compiuto in precedenza, raccolto da Matteo nei capp. 8-9. Essi hanno già a disposizione tutto ciò che serve per giudicare.
Nella tradizione giudaica, i tempi messianici sono quelli in cui le malattie, le sofferenze e il bisogno spariranno per lasciare il posto alla gioia, al benessere, alla pace; ma anche quelli del riscatto dei poveri e della liberazione dei prigionieri.
Per questo, nell’affrontare la domanda, Gesù devia l’attenzione dalla propria persona, non rispondendo direttamente alla questione ma indicando invece i segni che annunciano come presente il tempo della salvezza, che gli stessi interlocutori possono sperimentare.
La sua persona viene chiamata in causa solo nel versetto conclusivo, collegandola al tema dello scandalo, da leggersi come «caduta, inciampo» e da intendersi come allontanamento definitivo da Gesù.
A sintesi e commento di questi versetti, scrive Ulrich Luz: «Quello che preme a Matteo non è che si abbia una corretta conoscenza di Gesù, bensì che non ci si chiuda alle esperienze di salvezza alle quali Gesù invita. Queste esperienze di salvezza avanzano una pretesa, spingono a decidere pro o contro Gesù. Proprio per tale ragione l’evangelista ha fatto sì che Gesù, finita la sua opera di guarigione in Israele (capp. 8-9), conferisse ai discepoli l’incarico di porre Israele davanti alla decisione (cap. 10).».
Matteo ha chiaro che solo facendosi coinvolgere direttamente nella storia di Gesù, sperimentandola in prima persona e prendendosi la responsabilità di decidersi rispetto a lui, si possa rispondere davvero alla domanda sulla sua identità. Non ci sono risposte astratte che possano sostituire la partecipazione diretta alle opere che costituiscono la storia di Gesù.
È questa una considerazione dalla forza straordinaria, soprattutto se confrontata con l’abitudine di trasformare la vita cristiana in un catechismo a oltranza, per il quale l’esperienza di Cristo sarebbe più o meno riducibile alla comprensione razionale di una serie di concetti e alla pratica di qualche opera di pietà e/o di carità.
Qui c’è molto di più. Si entra nel Mistero di Cristo facendosi attivamente, personalmente, consapevolmente, responsabilmente coinvolgere nella sua storia che è sempre «storia di salvezza». Ieri, oggi, sempre.
Ogni “formazione cristiana» deve necessariamente passare di qui ed educare a questo.
Che cosa siete andati a vedere? (vv. 7-11)
Congedati i due, Gesù si rivolge alle folle con alcune domande retoriche con le quali strizza l’occhio alla gente, costruendo una complice intesa comunicativa. Il tono suonerebbe così: «So bene che non siete venuti a vedere canne da fiume o nobili rammollit…».
Il Giordano era luogo di canneti e nel deserto erano anche presenti i palazzi reali invernali, dove si vestiva in ben altro modo rispetto alla rude sobrietà del Battista. Peraltro, la canna rappresentava anche la persona inconsistente, di scarsa autonomia di giudizio e senza spina dorsale, decisamente opposta al carattere solido di Giovanni.
Potrebbe anche esserci un’allusione a Erode Antipa, sovrano dai molli costumi, che aveva coniato monete con il suo simbolo, appunto, una canna. Per cui la lettura sarebbe: «Non sarete certo venuti nel deserto per vedere quel (Erode) smidollato?».
Al di là dei dettagli, l’intento di creare accordo con la folla è evidente e l’uso della retorica fa sì che l’intesa sul motivo per cui sono andati nel deserto sia immediata: sono andati ad ascoltare un profeta.
L’obiettivo della “captatio benevolentiae” è in realtà un altro: spingere il popolo a cercare una chiave di lettura della missione di Giovanni ulteriore rispetto alla semplice idea della profezia. È ben di più, ma cosa?
Una citazione di Malachia viene usata come definizione: «Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate». In Ml 3, 23 questa figura viene identificata con il profeta Elia che tornerà per preparare «il giorno del Signore».
Gesù, inquadrando Giovanni in quel modo, dice implicitamente che il tempo in cui si trovano è «il giorno del Signore» e il Battista quello che apre la strada a «colui che viene». La conversione non può essere rimandata, una decisione di fronte a questo tempo deve essere presa. C’è un senso di urgenza e allo stesso tempo di forte promessa. Non c’è più da cincischiare.
Sono andati nel deserto a cercare un profeta e hanno trovato la “fine dei tempi”: il Messia atteso si sta per rivelare e la conversione non è rimandabile.
Se è chiara l’interpretazione del versetto di Malachia, non così il detto seguente sulla grandezza del Battista. A cosa si riferisce Gesù? Si comprende il senso del paragone coi «nati di donna», ma il confronto con il «più piccolo del regno» rimane oscuro. Il «regno» si riferisce alla comunità cristiana? Al presente di Gesù? Al compimento futuro? Non è chiaro e le posizioni degli esegeti non convergono.
Ci si può limitare però a cogliere l’idea, comunque attestata, di un “cambio di passo” nella storia della salvezza. Ciò che Gesù costruisce è radicalmente nuovo e infinitamente più grande. Chi decide di entrarvi affronta un’esperienza imparagonabile a qualsiasi altra.
Il Regno e i violenti (v. 12)
L’inquadramento di Giovanni, la sua collocazione nella storia della salvezza e il suo ruolo in rapporto alla figura di Gesù continuano con questo versetto che resta uno dei più enigmatici in assoluto dei Vangeli.
Il lessico che Matteo utilizza costruisce chiaramente un quadro di violenza, oppressione, brutalità, rapina e saccheggio (letteralmente: «il regno dei cieli subisce violenza e gente violenta lo porta via»).
Tentare attribuzioni di significato positivo come a volte capita di incontrare 1 non restituisce adeguatamente il clima negativo e violento che l’evangelista costruisce nel detto.
La lettura più opportuna considera semplicemente il regno di Dio come oggetto di violenza. Si può pensare a discepoli del Battista o di Gesù eccessivamente zelanti, ma l’interpretazione più piana, dunque preferibile, vede in questa «gente violenta» gli avversari di Giovanni e del Cristo che tentano di sottrarre il regno appropriandosene.
Più che delle persecuzioni è opportuno vedere in questo un richiamo alla “tribolazione degli ultimi tempi” o allo scontro sempre in atto tra le forze del bene e quelle del male.
Possiamo pensare a chi strumentalizza il Regno per interessi di parte, a chi lo piena a ragioni politiche, a chi lo utilizza per manipolare, sfruttare, dominare le persone, a chi ne fa un metodo di oppressione delle coscienze, a chi lo usa per accrescere la reputazione personale o per guadagnarsi un posto in società.
Ma possiamo anche pensare agli ammonimenti del discorso escatologico di Mt 24 circa i falsi profeti e tutti coloro che tenteranno di appropriarsi del Regno come di una sorta di esclusiva, in base alla quale categorizzare e discriminare le persone.
È interessante osservare che Giovanni stesso è coinvolto dentro questa battaglia. Il suo tempo è già tempo in cui il regno subisce violenza. Lui stesso è parte in causa e ne farà esperienza diretta, anticipando la sofferenza che sarà anche del Cristo.
Per quanto Matteo confronti Giovanni con il più piccolo del regno di Dio, non intende dunque con questo escluderlo integralmente da esso. La condivisione della violenza subita all’irrompere del regno fa anche di lui un testimone del regno che viene e, poiché rifiutato, un “accusatore” dell’Israele che non accoglie l’annuncio.
L’Elia che deve venire (vv. 13-15)
Gesù e il Battista condividono il destino dei profeti di Israele e si trovano strettamente legati alla storia che li ha preceduti. Così, il detto sui violenti ha preparato l’affermazione principale che Matteo fa su Giovanni e il suo rapporto con il Messia.
Egli appare come una sorta di anello di congiunzione tra Israele e il regno di Dio. È al contempo l’araldo che annuncia il compimento del tempo della promessa e l’ultimo dei profeti.
È l’Elia redivivo. Quel che era stato implicitamente anticipato con le parole di Malachia, ora viene espressamente affermato. È davvero ben più di un profeta, è la chiamata definitiva, l’occasione propizia, il momento cruciale, il punto di svolta che lega la lunga storia di alleanza del popolo con il suo Dio al compimento delle promesse di salvezza.
Giovanni è l’uomo che sta tra il tramonto e l’alba, rendendo evidente la continuità della storia tra un giorno e il seguente del compiersi del disegno di Dio.
Spunti di riflessione.
Molti sono i messaggi di carattere universale e attualizzatili che il testo veicola e dei quali si può fare tesoro. Scegliamo di evidenziarne tre.
Il regno di Dio che viene è anzitutto una sollecitazione alla libertà. Sia perché si manifesta come una liberazione, ma soprattutto perché chiama fortemente in causa la libertà della persona, evidenziandola come elemento positivo ed essenziale. Libera, lascia liberi, chiede libertà.
La chiamata del Vangelo è una chiamata di aderenza alla realtà e non di distacco da essa. I segni del regno sono dentro la realtà in cui viviamo e benché non siano evidenti, sono concreti. Perciò la realtà va profondamente ascoltata senza imporre su di essa l’idea che abbiamo.
Il regno è forte ma non prepotente, subisce invece violenza. Non c’è dubbio che la volontà di salvezza di Dio avvenga nella storia, ma non assume mai tratti violenti. Quando l’evangelizzazione prende strade in qualche modo assimilabili a una violenza diventa un ostacolo al regno.
Vivere (spunti per la conversione del quotidiano)
Non c’è altra strada per conoscere Cristo se non farsi coinvolgere nella sua storia, che è una storia di salvezza e di liberazione, fatta di opere di salvezza e liberazione.
La comunità cristiana è chiamata a costruire anzitutto storie di salvezza e di liberazione. I discepoli sono chiamati a offrire lo stesso anche singolarmente.
Entrare nella storia di Cristo significa non comporta necessariamente sperimentare una guarigione o una salvezza. Significa lasciarsi coinvolgere, attrarre e segnare.
Per far questo, però, occorre mettersi in ascolto sincero delle domande, delle sofferenze, dei bisogni dell’uomo di oggi. Perché la storia di Cristo passa di lì.
Celebrare (spunti per l’Eucaristia)
L’Eucaristia ha dei meravigliosi tratti di debolezza. È un rito semplice in cui non ci sono - e non devono esserci - esibizioni di forza. Ascolto della parola, accoglienza, riconoscimento del bisogno di perdono, invocazione e ringraziamento, condivisione del nutrimento, assenza di “controlli all’accesso”, etc…
È un tratto che della celebrazione si sottolinea poco eppure è un elemento non di dettaglio. Il farsi presente nel pane e nel vino non è solo segno del dono che Dio fa di sé, è anche un segno estremo di rinuncia ad ogni forma non solo di violenza ma anche di difesa.
Ciò va custodito. Ma allo stesso tempo è anche uno spazio in cui le nostre debolezze possono essere deposte, interpretate, accettate, comprese, perdonate, guarite.
Ci si prepara alla celebrazione smettendo di fare della vita una prova di forza. E anche facendo colletta delle proprie debolezze.
Riconciliarsi (spunti per la Confessione)
Gesù fa una lettura complessiva della vicenda di Giovanni inquadrandolo e facendone una sintesi.
È un bel modo di prepararsi al sacramento della Riconciliazione, quello di esercitarsi a riconciliare la propria vita e a riconciliarsi con essa, considerando anzitutto gli elementi positivi.
Un buon esercizio è la «preghiera di sintesi». L’obiettivo di questa pratica è consolidare, in modo consapevole e responsabile, i passi compiuti.
Si tratta di fermarsi periodicamente in un momento di preghiera prolungato nel quale ripensare al percorso fatto, prendere atto degli sviluppi positivi, considerarli come proprio carattere peculiare, fissarli per iscritto in modo formale e affidarli al Signore come elementi fondamentali del rapporto con Lui.
Ad esempio: la venuta del regno di Dio viene forzata dall’impegno in buone opere di chi lo cerca, “strappandolo” dalla mano di Dio; il regno di Dio viene con una violenza inarrestabile ma c’è chi tenta di rapinarlo ↩