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«Chi dite che io sia?». L’Avvento tra Bibbia e Springsteen
La quarta domenica d'Avvento ambrosiano è intitolata «L'ingresso del Messia». Ne approfondiamo qui il significato, con una meditazione evangelica e l'ascolto guidato di 4 pezzi di B. Springsteen. Quarto di sei interventi proposti alla Comunità Pastorale Madonna del Rosario di Lecco.
«L’ingresso del Messia». Parole di Vangelo.
ASCOLTA L’INTERVENTO:
Quando furono vicini a Gerusalemme, verso Bètfage e Betània, presso il monte degli Ulivi, mandò due dei suoi discepoli e disse loro: "Andate nel villaggio di fronte a voi e subito, entrando in esso, troverete un puledro legato, sul quale nessuno è ancora salito. Slegatelo e portatelo qui. E se qualcuno vi dirà: "Perché fate questo?", rispondete: "Il Signore ne ha bisogno, ma lo rimanderà qui subito"". Andarono e trovarono un puledro legato vicino a una porta, fuori sulla strada, e lo slegarono. Alcuni dei presenti dissero loro: "Perché slegate questo puledro?". Ed essi risposero loro come aveva detto Gesù. E li lasciarono fare. Portarono il puledro da Gesù, vi gettarono sopra i loro mantelli ed egli vi salì sopra. Molti stendevano i propri mantelli sulla strada, altri invece delle fronde, tagliate nei campi. Quelli che precedevano e quelli che seguivano, gridavano: "Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli!". Ed entrò a Gerusalemme, nel tempio. E dopo aver guardato ogni cosa attorno, essendo ormai l'ora tarda, uscì con i Dodici verso Betània. (Mc 11, 1-11)
Una questione di visione
La questione al centro dell’episodio dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme è quella la sua identità.
Per quanto la processione dal Monte degli Ulivi possa apparire come una specie di cerimonia di riconoscimento pubblico - al pari della annuale celebrazione liturgica delle comunità cristiane - così non è affatto.
Gli occhi che lo guardano passare, quelli che lo attendono arrivare, quelli che lo hanno accompagnato lungo il cammino che l’ha portato fino a quel momento, tutti questi occhi vedono cose diverse e hanno una risposta differente alla domanda: «Chi è Gesù Nazareno?».
Per alcuni è un nemico e un impostore. Per altri il Figlio di Davide, il Cristo re condottiero. C’è chi lo guarda come il Liberatore che porta la gioia e la pace e chi come il Maestro che li ha chiamati e dal quale attendono una ricompensa. Pochi illuminati lo riconoscono quale Figlio di Dio che ha portato la salvezza dal male e dai peccati.
Visioni parziali e parziali cecità, le une e le altre frutto e segno di personali aspettative, interessi, sensibilità, vicende di vita. Occhi bisognosi di una conversione piccola o grande che sia, di una riforma della visione che hanno di quell’uomo.
Al suo passaggio suona sempre la stessa chiamata: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino. Convertitevi e credete al Vangelo». (Mc 1, 15)
L’incontro con Gesù è una messa in discussione dei propri modi di ragionare, valutare, considerare e infine decidere, per assumere quelli del Vangelo, cioè della sua visione condensata in parole e parole.
Questa sua pretesa di autorevolezza pone la questione: chi sei tu? Da dove viene la tua sapienza? Il potere per compiere i segni da chi ti è dato?
La risposta a queste domande è frutto e allo stesso tempo condizione dell’accoglienza del suo insegnamento. So dire chi è Gesù Nazareno se accolgo docilmente e profondamente il Vangelo. Solo poiché so chi è quell’uomo posso permettere alla sua parola di trasformarmi interiormente.
Che l’ingresso a Gerusalemme abbia a che fare con tutto questo è lo stesso Marco a dircelo, offrendoci come antipasto dell’ultima settimana di Gesù l’ennesimo episodio di guarigione.
Non a caso, però, l’episodio ha a che fare con la cecità e contiene una limpidissima affermazione proprio circa l’identità del Nazareno.
«E giunsero a Gerico. Mentre partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: "Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!". Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: "Figlio di Davide, abbi pietà di me!". Gesù si fermò e disse: "Chiamatelo!". Chiamarono il cieco, dicendogli: "Coraggio! Àlzati, ti chiama!". Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: "Che cosa vuoi che io faccia per te?". E il cieco gli rispose: "Rabbunì, che io veda di nuovo!". E Gesù gli disse: "Va', la tua fede ti ha salvato". E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.» (Mc 10, 46-52)
Il protagonista è identificato dal nome - Bartimeo - ma soprattutto dalla condizione: è cieco e sta ai bordi della strada. La sua immagine contrasta fortemente con quella dei discepoli proprio per questi due aspetti.
Questi ultimi, infatti, sono da tempo per via seguendo il Maestro, avendo avuto così la possibilità di vedere da vicino le sue opere e comprendere la sua vera identità. Eppure negli episodi precedenti all’arrivo a Gerico sono apparsi a loro volta ciechi e fuori strada rispetto a ciò che il Maestro cercava loro di mostrare.
Bartimeo, invece, che è cieco, fermo e fuori strada, dimostra di vederci già benissimo. O meglio, il suo udito è una vera e propria «visione» perché non dubita un attimo ad attribuire a Nazareno che passa il titolo messianico di «Figlio di Davide».
È l’unico che in tutto il Vangelo di Marco chiama per nome Gesù. È il segno della conoscenza. Egli sa che in quell’uomo c’è il Dio che salva. Il cieco “sa” Dio. Ci vede benissimo, prima che gli si aprano gli occhi.
La luce che brilla in lui è talmente forte da sovrastare i tentativi di metterlo a tacere dei discepoli. Loro non vedono Gesù nella giusta prospettiva, pensano che Lui non abbia voglia di «vedere» il cieco perché c’è Gerusalemme che attende di essere conquistata e non c’è tempo da perdere.
La loro «conversione al Vangelo» non è ancora avvenuta del tutto, credono di vedere ma sono ciechi. Gesù li costringe all’inversione a U. Il cieco va ascoltato. Il Maestro non è quel che i discepoli credono.
La domanda che rivolge a Bartimeo è anch’essa una prova: se hai capito chi sono, cosa intendi chiedermi?
La risposta del cieco è illuminante nella sua ambiguità: chiede di «vedere di nuovo», ma anche di «guardare in alto». Bartimeo chiede a Gesù non solo di avere gli occhi sani, ma anche la «visione» che è venuto a portare, senza la quale si continua a restare ciechi.
Per questo non è solo guarito, ma dichiarato salvato.
Chi è il Cristo?
Avere a che fare con Gesù e il mistero della sua identità è dunque un’esperienza di illuminazione, in cui si passa dalla cecità alla visione per fede e per mano di un altro. Occorre lasciare cadere le squame di pregiudizio, attese, mentalità malate che coprono gli occhi.
In un episodio precedente, questo messaggio era già arrivato forte e chiaro.
Ci troviamo a metà del Vangelo di Mc, al capitolo 8, in un passaggio nel quale la questione dell’identità di Gesù e della comprensione di essa da parte della gente viene posta da lui stesso, chiedendo ai discepoli chi dice la gente che lui sia.
È importante far presente che subito prima di tale passaggio, Gesù si era scontrato con l’incomprensione dei discepoli che non avevano capito il miracolo dei pani, dimostrando di fare molta fatica ne cogliere il senso della sua missione.
In tutta risposta, aveva guarito un altro cieco a Betsaida, un miracolo di chiara portata simbolica: i ciechi da guarire sono ben altri.
Giunsero a Betsàida, e gli condussero un cieco, pregandolo di toccarlo. Allora prese il cieco per mano, lo condusse fuori dal villaggio e, dopo avergli messo della saliva sugli occhi, gli impose le mani e gli chiese: "Vedi qualcosa?". Quello, alzando gli occhi, diceva: "Vedo la gente, perché vedo come degli alberi che camminano". Allora gli impose di nuovo le mani sugli occhi ed egli ci vide chiaramente, fu guarito e da lontano vedeva distintamente ogni cosa. E lo rimandò a casa sua dicendo: "Non entrare nemmeno nel villaggio".(Mc 8, 22-26)
Il cieco viene portato fuori dal villaggio, lontano dalla sua situazione di vita, dal luogo in cui andava a elemosinare. La guarigione non comporta il semplice recupero della vista, ma il mutamento radicale del «luogo di vita» e della condizione esistenziale di quest’uomo.
Che la guarigione abbia una portata simbolica ce lo conferma anche il fatto che l’evangelista parli di un ritrovamento della «visione» - come in Bartimeo - più che del senso della vista, a intendere il coinvolgimento della dimensione interiore.
Marco sembra anticipare nel cieco guarito il cammino che faranno i discepoli. Come al cieco Gesù gradualmente ridona la vista, così con i discepoli non smetterà di impegnarsi affinché si aprano loro gli occhi della fede. Anche loro cambieranno radicalmente «luogo di vita» quando lo Spirito darà loro la «visione» che non riuscivano a cogliere. Ma sono ancora lontani.
Con queste premesse, Gesù formula quella domanda circa la propria identità , con l’esito che ben conosciamo:
Poi Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: "La gente, chi dice che io sia?". Ed essi gli risposero: "Giovanni il Battista; altri dicono Elia e altri uno dei profeti". Ed egli domandava loro: "Ma voi, chi dite che io sia?". Pietro gli rispose: "Tu sei il Cristo". E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno. E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell'uomo doveva soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: "Va' dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini". (Mc 8, 27-33)
La gente sembra non aver capito nulla dell’identità di Gesù e per i discepoli risponde Pietro, a nome di tutti.
Ciò che dice è corretto, ma ciò che intende è sbagliato. Tant'è che Gesù lo rimprovera. Quel che Pietro dice va taciuto.
«Il Cristo» con l'articolo indicava il Messia della tradizione, quello della restaurazione di Israele, quello potente, il dominatore che avrebbe spazzato i nemici. Gesù è certamente Messia ma non così.
Pietro è messo a tacere come ai demoni e alle forze della natura. Nelle parole del discepolo c’è qualcosa di pericoloso. Zittito Pietro, Gesù fa chiarezza annunciando quale sarebbe stato il vero volto del Messia.
Un perdente. Rifiutato e sconfitto di fronte ai potenti del suo tempo. Colpito, schiacciato, umiliato. Nessuna traccia di regalità o di potenza. Nessuna marcia trionfale, nessun riconoscimento ufficiale, nessuna presa di potere.
Pietro nemmeno la sente quella conclusione gloriosa e non può vedere quel volto del Messia. Aggredisce Gesù per farlo tacere, come il suo Maestro aveva fatto poc’anzi con lui (usa anche luiepitimao, trattando Gesù come uno spirito impuro!).
Il risultato è una severa lavata di capo da parte di Gesù che rimette il discepolo al suo posto, ricordando che i suoi occhi hanno bisogno di molta conversione.
Raccolti questi elementi, si comprende il senso e il valore dell’ingresso a Gerusalemme.
La cavalcata a dorso d’asino è un discorso che Gesù fa su di sé, dal valore di rivelazione rispetto alla propria identità e al modo in cui intende essere Cristo.
Quella che compie non è una parata militare e nemmeno una marcia trionfale. Non sta disponendo le truppe per l’assalto e schiera un esercito potente prorompendo in urla di guerra.
Un animale da soma come cavalcatura, i segni di onore appena accennati, non un tratto di gloria mondana né di arrogante potere. Se di un re si tratta - Cristo è l’unto, il re - il suo modo di regnare lascia spiazzati e mostra segnali di una debolezza disarmante.
Essere il Figlio dell’uomo
Ne aveva già lanciati, in realtà, pur non parlando molto di sé.
Fino al capitolo 8 si era mostrato infatti reticente e aveva messo a tacere tutti coloro che pretendevano di dire chi fosse.
Benché non ne tratti Gesù direttamente, nella prima metà del Vangelo di Marco, il tema della sua identità è affrontato o anche solo sfiorato in una quantità di episodi (su per giù una ventina).
Di lui parlano: Giovanni Battista, la voce dal cielo, gli spiriti impuri che scacciai, la gente di Nazaret, Erode. Ciascuno fa affermazioni riguardo Gesù, più o meno centrate ovviamente.
Poi ci sono gli altri - la folla, gli scribi e i farisei - che si chiedono solo «Chi è costui?» o «Con quale autorità fa queste cose?» ogni volta che restano spiazzati dalle sue parole e dalle sue azioni.
Nella seconda parte del Vangelo interverranno anche Pilato, il sommo sacerdote, infine il centurione che sotto la croce fa la vera professione di fede/rivelazione di tutto il racconto marciano: «Davvero quest’uomo era il Figlio di Dio».
A far da collante, c’è il percorso dei discepoli costantemente in ritardo rispetto al Maestro, incapaci di comprenderne l’insegnamento e ciechi a fronte dei segni del suo modo di incarnare il Messia atteso.
Gesù come si muove in mezzo a quella ridda di voci?
Impone il silenzio a volte, tende a non affrontare la questione, è evasivo e sfuggente quasi inafferrabile, è sbrigativo e a volte ruvido da apparire impenetrabile.
Parla molto poco in generale però agisce, agisce moltissimo, principalmente operando guarigioni e qualche altro prodigio, mantenendo in ogni caso un comportamento spesso spiazzante.
Più opinioni circolano su di lui, più i suoi contorni si fanno sfumati e il suo atteggiamento orientato a smontare precompressioni, pregiudizi, aspettative e proiezioni sulla sua persona.
Il tema della sua identità è delicato e appare come un sentiero accidentato. Va percorso con prudenza e cautela e soprattutto con il giusto atteggiamento.
Per arrivare a comprendere chi è bisogna anzitutto lasciarsi decostruire per arrivare ad assumere la sua visione. È la caratteristica del Vangelo di Mc, in cui un discepolo diventa tale nel momento in cui riconosce di non sapere chi sia davvero il Nazareno.
Ci sono però alcune circostanze in cui Gesù parla di sé usando sempre l’espressione «Figlio dell’uomo», identificandosi così con essa.
Si tratta di un’espressione di origine oscura, usata nell’AT in senso generico per indicare l’uomo (cfr Sal 85 e come appellativo del profeta Ezechiele), ma anche con sfumature apocalittiche per riferirsi a un inviato divino in opposizione alle forze del male o al giudice redentore della fine dei tempi.
Nei Vangeli sinottici è usato per rifarsi di volta in volta alla vita terrena di Gesù, alla sua Passione, al ritorno della fine dei tempi.
Marco lo usa 13 volte di cui la maggior parte in riferimento al tema della sofferenza e resurrezione del Figlio dell’uomo nella persona di Gesù.
È una sua tipica sottolineatura con cui evidenzia il fatto che il Cristo è venuto per servire e dare la vita, nella forma dell’uomo sofferente che va incontro a un destino di debolezza e morte, prima di risorgere.
È da notare che i contesti in cui l’espressione viene usata contengono sempre qualche elemento conflittuale o qualche provocazione, diretta o indiretta, che mette in discussione la visione di Gesù.
Come se il percorso di riconoscimento e affermazione della propria identità da parte di quest’ultimo fosse una lotta - esteriore e interiore - tra visioni opposte tra cui ogni volta decidersi.
Per lo stesso Gesù, la questione dell’identità è spinosa e di non facile soluzione.
La scoperta di sé
Un simile processo non può essere pensato se non come graduale e progressivo. Possiamo e dobbiamo immaginare che anche per il Figlio di Dio c’è stata un’evoluzione della propria comprensione di sé e della consapevolezza della propria missione.
Oltre ad essere un dato implicito nella dinamica dell’incarnazione, ce lo segnalano pure alcuni episodi di Mc che possono essere letti anche in questa prospettiva.
Sono occasioni in cui Gesù viene sostanzialmente colto di sorpresa, spiazzato anche lui dal comportamento di fede di alcuni e dall’incredulità di altri e perciò costretto a ripensarsi, rimodellandosi di conseguenza.
Nell’episodio dell’Emorroissa (Mc 5, 21 ss.) viene spiazzato dalla potenza della fede della donna, capace di strappargli un miracolo violando le norme sociali e giungendo a lui come dall’ingresso di servizio.
Un miracolo di cui lui si accorge praticamente a cose fatte e al quale non riesce, non può opporsi. L’impressione che sia un episodio in cui Gesù impari qualcosa di sé, della fede, della potenza sanante di Dio, del modo in cui il Regno di Dio avviene, è molto netta.
Anche a Nazaret, nella sua patria, Gesù resta sorpreso e limitato nella sua azione dall’ incredulità dei suoi compaesani (Mc 6, 1 e ss.). Al rovescio di ciò che era accaduto con l’Emorroissa, conosce brutalmente i limiti della propria azione e della stessa potenza sanante di Dio.
La volta in cui, invece, sconfina in territorio pagano a nord del paese, verso Tiro e Sidone (Mc 7, 24 e ss.) l’incontro con una donna di enorme fede lo costringe a rivedere i pregiudizi che inevitabilmente anche lui aveva circa le popolazioni straniere.
Il suo comportamento rude e perfino insolente viene affrontato e rimodulato dalla fede e dall’eleganza della donna che lo lascia, infine, a bocca aperta. Gesù prende lezioni da una pagana!
In sintesi.
La questione dell’identità di Gesù, in Mc ci appare delicato e spinoso, meritevole di prudenza e cautela, rispetto e disponibilità alla conversione. Tanto per lui che per i discepoli.
Gesù compie un ricerca di autenticità e di definizione della propria identità, litiga con l’ambiguità del sé, con la sorpresa di scoprirsi gradualmente e non di colpo in un’unica soluzione.
Anche lui si scontra con il lato oscuro, rappresentato narrativamente da chi ha visioni diverse dalla sua, dai suoi oppositori, dalla lentezza e cecità dei suoi discepoli.
È anche sostenuto, però, da coloro che si ritrovano nella sua visione e addirittura contribuiscono ad ampliarla e approfondirla.
Tutto questo avviene non solo prima della sua attività pubblica, ma anche durante la stessa. Dunque anche questa dinamica di lotta interiore/esteriore è parte dell’annuncio evangelico.
In lui rivediamo le nostre stesse fatiche a scavare, scoprire, definire, affermare, rielaborare, criticare, accettare, intraprendere consapevolmente la nostra identità, nei suoi aspetti permanenti, in quelli più dinamici, quelli positivi e quelli negativi.
«L’uomo che avrei voluto essere». Parole di Springsteen.
ASCOLTA LA REGISTRAZIONE DELL’ASCOLTO GUIDATO:
QUI I TESTI E LA TRADUZIONE:
L'uomo che avrei voluto essere
Terminato il tour Tunnel of love nell’88, sull’onda della sbornia di successo e lavoro incessante partita da Born to run nel 1975 e mai interrotta, con un divorzio doloroso alle spalle e una nuova relazione complicata da mettere in piedi, Springsteen va in crisi.
La spinta produttiva si è raffreddata, la maturità piena si avvicina, le responsabilità sono cresciute insieme a popolarità e ricchezza, i problemi aumentano, le persone che lo contrastano crescono insieme a quelle che lo idolatrano.
E poi c’è la storia personale che presenta il conto con i conflitti interiori, legati alla figura di un padre problematico, che si ripercuotono sulle sue relazioni e in particolare sulle persone che ama.
Le domande aumentano, le certezze diminuiscono. C’è bisogno di cambiare per fare chiarezza. La sensazione che debba nascere qualcosa di nuovo in Springsteen è chiara dal punto di vista musicale ma anche umano.
Già in Tunnel of love aveva sperimentato nuove sonorità e modalità compositive, prendendo parzialmente le distanze dalla E-Street Band. L’ambiente del New Jersey che tanto gli aveva dato sembra ora andargli stretto, tanto più dopo il divorzio.
Springsteen decide dunque di cambiare casa e da Rumson, NJ si trasferisce a New York con Patti, la nuova compagna. Ma le cose non migliorano. L’ambiente newyorkese non fa per lui.
Come ogni Americano quando c’è bisogno di cambiamento, novità, rinascita, decide di andare a Ovest in California, dove già si erano trasferiti i suoi genitori. Prende casa a Los Angeles sulle Hollywood Hills.
Lì i mette nei panni della star che si gode i soldi e il successo in una villa da sogno. Ma intanto il travaglio interiore va avanti, i problemi con Patti aumentano e la domanda interiore diventa bruciante: chi sono? Chi voglio essere? Dove voglio andare.
Decide di sciogliere la E-Street band e iniziare un nuovo percorso musicale. Nuove esperienze, nuove ricerche, nuove consapevolezze e lo scontro duro e serio con il conflitto interiore.
Ne usciranno due album - Human Touch e Lucky town - e un nuovo Bruce che all’animo del New Jersey ne affiancherà uno nuovo, più risolto e riconciliato.
I semi di tutto questo travaglio riguardo alla propria identità personale e alla scoperta del «sé» erano posti tutti in Tunnel of love in cui, per quanto affrontato nell’ambito della relazione di coppia, la domanda «chi sono davvero?» risuona drammaticamente.
È tutto un album attraversato dal tema del doppio.
La possibilità dell’inganno, del malinteso e dell’equivoco doloso o colposo. La doppiezza personale, la menzogna, la percezione che il tradimento è dietro l’angolo.
L’esperienza di essere soggetti spaccati nei quali mentre si lotta per un’identità può improvvisamente emergerne un’altra esattamente opposta.
L’incertezza attorno all’identità di sé e dell’altro. Il dubitare di sé e del partner.
Tutto questo fa da trama a Tunnel of love dal quale peschiamo quattro pezzi in cui la fatica di avere a che fare con la consapevolezza di sé viene declinata in modi provocanti.
Cautious Man
(Tunnel of love, 9 ottobre 1987, Columbia Records)
Il primo personaggio è introdotto come un soldato di ventura, dedito alla strada e al suo codice di condotta che non si lascia sviare facilmente da coinvolgimenti prolungati, vigile prudente e attento.
Incontra una donna e solo con lei lascia andare la sua prudenza.
Ma ha una doppia anima divisa tra amore e paura. Se li porta tatuati addosso senza sapere mai cosa sia a decidere e chi tenga in manoi il suo destino.
Sposa la donna e cerca di fare del suo meglio perché tutto vada bene. Ma sa che in un cuore vagabondo come il suo giace il seme del tradimento.
La strada lo chiama fortemente come un dna da cui non può prescindere e finisce con il lasciarsi trascinare. Una volta in strada di nuovo, sembra non esistere più null’altro.
Ma per questa volta resiste con quel freddo che gli cresce dentro e gli rimarrà attaccato addosso come i tatuaggi di amore e paura sulle sue nocche. Il gelo della rinuncia e della consapevolezza di non potere esser l’una e l’altra cosa.
Chi sono io? Un vagabondo o uno che ha messo su casa?
One Step Up
(Tunnel of love, 9 ottobre 1987, Columbia Records)
Una casa fredda. La stufa spenta. Una macchina che non parte.
Sono le immagini simbolo di un rapporto che non sta andando da nessuna parte. I due si sono dati delle dure lezioni ma senza imparare nulla: fanno un passo avanti e due indietro. Sapere cosa stai sbagliando non significa sapere come risolvere le cose.
Poi, cinematograficamente, l’inquadratura si sposta sulla stanza di un motel dove si trova il protagonista. Segno che le cose vanno male a casa? Segno che c’è un’altra?
In ogni caso, la situazione non è affatto felice. L’uccellino non canta, la sposa non ha le campane a festa.
Terzo stacco e il nostro è seduto al bancone del bar, riuscendo solo a pensare che alla fine tra lui e lei è sempre la solita storia. Ogni notte a discutere per avere ragione come una piccola sporca guerra fatta di porte sbattute.
E l’amara constatazione, cuore della canzone, che nel guardarsi allo specchio non vede l’uomo che vorrebbe vedere. È andato fuori strada, nemmeno sa come e ora si trova dove mai avrebbe voluto essere.
Ma c’è un’occasione con una ragazza al bar che non pare sposata e lui, ovviamente, finge di non esserlo. Sa bene cosa fare, ma mentre pensa a quel che sta per accadere, il pensiero corre alla moglie e al desiderio di vivere di nuovo intensamente con lei quelle sensazioni.
Capita di diventare, senza accorgersi, qualcuno che mai si avrebbe voluto essere.
Brilliant Disguise
(Tunnel of love, 9 ottobre 1987, Columbia Records)
Si parte con un matrimonio e la banda che suona, ma subito è accennato il pericolo dell’incomprensione: «Cosa mi dicevi mentre te ne andavi?» chiede lui alla giovane sposa.
Ci si ritrova subito davanti al dubbio di sapere chi è l’altro/a. Cosa ci faceva lei fuori l’altra notte ai bordi della città? E vorrebbe leggerle la mente per capire cosa sta accadendo, che parte davvero ha lui e se tutto è solo un inganno.
Il dubbio si insinua e si raccolgono gli indizi: c’è qualcuno che sta prendendo il suo posto? Un altro con cui lei vive le stesse cose passate con lui? Il dubbio diventa insicurezza: «Cosa ci fa uno come me con una come te?».
Ci ha provato a fare andare bene le cose e se tutto crolla lui resta solo un vagabondo senza meta. Perciò ha bisogno di sapere se di lei può fidarsi perché di se stesso, ormai, non si fida più. Il dubbio e l’incertezza dilagano.
Il loro letto è freddo e l’amore è diventato una oscurità fatta di dubbi e di domande. Un supplizio senza fine per cui si deve chiedere pietà. Dio abbia pietà di chi dubita delle proprie certezze.
Chi sono, chi sei? È forse tutto un brillante travestimento?
Two Faces
(Tunnel of love, 9 ottobre 1987, Columbia Records)
Scrive Luca Miele nel suo interessante libretto «Il Vangelo secondo Bruce Springsteen»:
Il tema del doppio esplode in tutta la sua drammaticità in Two Faces. Tutto il brano è giocato sul registro di una dualità non sanabile, non ricomponibile,, irrimediabile. L’uomo ha due volti, uno dice «a presto», l’altro «addio», uno si sente «solare» l’altro «selvaggio», uno piange, l’altro ride, uno ama vedere il sorriso aprirsi sul volto della persona che ama, l’altro vede «arrivare nuvole nere», «uno fa cose che non riesco a capire facendomi sentire un mezzo uomo». L’uomo non fa ciò che vuole, non fa le cose che vorrebbe, è preso in trappola, in un meccanismo disperante, è un uomo inchiodato alla disperante duplicità della volontà.
Un pezzo dunque in cui sembrano risuonare le parole di san Paolo nella sua lettera ai Romani: «C’è in me il desiderio del bene ma non la capacità di compierlo. Ora se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me».
Nel cuore dell’uomo di Two Faces c’è un altro «sé» che vuole allontanare l’amore della sua donna e gli ha giurato guerra. E lui prega perché il loro amore invece lo faccia tacere.
Quell’uomo interiore gli ha detto che la loro vita è una bugia e che lui è solo una doppia faccia. Ma si vedrà infine chi avrà ragione.