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La Chiesa in salute è quella ferita.
Prima Domenica dopo il Martirio del Precursore
Al loro ritorno, gli apostoli raccontarono a Gesù tutto quello che avevano fatto. Allora li prese con sé e si ritirò in disparte, verso una città chiamata Betsàida. Ma le folle vennero a saperlo e lo seguirono. Egli le accolse e prese a parlare loro del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure. (Lc 9, 10-11)
Erano ormai passati dall’altra parte della cattedra. L’invio da parte del Maestro a compiere i Suoi stessi gesti e a predicare in nome Suo, poteva significare solo una cosa: li aveva promossi. Esami superati. Tesi discussa. Tirocinio affrontato. Loro e il Maestro erano di fatto colleghi.
La prima chiamata già li aveva fatti sentire speciali, anzi unici. Certamente diversi da quella massa anonima di persone che seguiva il Cristo ovunque andasse. Ora la distinzione dei ruoli è chiara e definitiva: loro salvatori, insieme al Salvatore, di un’umanità tutta da guarire. Non saranno mai più come gli altri.
Che ora Lui li porti in disparte non solo è comprensibile ma necessario: il lavoro è stato svolto, il bilancio fatto e ora occorre programmare. C’è un mondo da salvare!
Betsaida, però, non è il massimo per una riunione di lavoro. È una città, ci sarà gente. E poi non sembra nemmeno tirare una buona aria nei confronti di Gesù da quelle parti. Sarebbe meglio un luogo deserto. Invece no. Lui li porta lì, proprio tra la gente. In mezzo ai malati, agli increduli, ai peccatori. Seduti, anche loro, ancora una volta a ascoltare il Maestro insegnare, a guardare il Salvatore guarire.
Non dovevano correre il rischio di dimenticare chi erano e da dove venivano. Occorreva che tenessero stretta la consapevolezza di essere anche loro poveri, malati, peccatori sempre e continuamente bisognosi di essere stati salvati, guariti e perdonati da Cristo.
Se non si fossero più sentiti parte integrante di quel popolo oggetto della Misericordia di Dio, che Regno avrebbero mai potuto annunciare? Se si fossero considerati un gradino sopra la folla, depositari di un potere e di una salvezza da far cadere a pioggia sulla gente sottostante, quale Compassione avrebbero potuto offrire?
Apostoli del Regno lo dovranno essere, ma ricordando sempre di essere poveri tra i poveri, malati con i malati, peccatori in mezzo ai peccatori. Perché solo così si può restare alla presenza di quella Salvezza che si è chiamati non a dispensare con superiorità ma a condividere con umiltà.
Noi cristiani - e noi preti in modo particolare - ci consideriamo facilmente come coloro che portano la Salvezza al mondo, atteggiandoci di conseguenza. Non che non ci sia anche del vero, ma se proprio vogliamo fare i medici del mondo intero, il Vangelo ci invita a farlo da guaritori feriti.
Vorrei vedere questo Gesù prendere sempre i suoi discepoli, riportarli lì tra la gente dov’è il loro posto, perché per primi si lascino accudire e non dimentichino mai che un cristiano è solo un povero che confida ad altri poveri la via di un luogo dove tutti si possono sfamare.
Perché, forse, persino l’affascinante immagine di una Chiesa “ospedale da campo” china sui mali del mondo rischia di farci sfuggire una fondamentale verità. Quella di una Chiesa che deve essere la prima a riconoscersi debole e ferita, capace di guarire ma bisognosa di guarigione, chiamata ad insegnare ma disposta ad imparare, portatrice di misericordia e pronta a chiedere perdono, vigorosa nella profezia e umile nel convertirsi, ricca di parole di salvezza e bisognosa di essere continuamente salvata.
Questa Chiesa è madre e sorella. Questa Chiesa sa la Salvezza e sa di Salvezza.