

Discover more from La Bottega del Vasaio
Questo intervento è stato proposto all'interno del percorso del Gruppo di Spiritualità familiare della Comunità Pastorale Acquate-Bonacina-Olate di Lecco.
Dio disse: "Facciamo l'uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: dòmini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra". E Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e Dio disse loro: "Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra". (Gen 1, 26-28)
Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. E il Signore Dio disse: "Non è bene che l'uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda". Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all'uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l'uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l'uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse. Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull'uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all'uomo, una donna e la condusse all'uomo. Allora l'uomo disse: "Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna, perché dall'uomo è stata tolta". Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un'unica carne. (Gen 2, 15.18-24)
ASCOLTA L’INTERVENTO:
Commento al testo.
Il testo di Genesi al primo versetto, riferendosi alla creazione della nuova creatura, parla di adam.
Non si tratta di Adamo, inteso come il maschio che fa il padrone della creazione, come siamo abituati a pensare.
Adam significa «fatto di terra», letteralmente «il terroso» ed è l’umano che esiste fin da subito come essere indifferenziato e sessuato, distinto in maschio e femmina.
Adam è dunque una denominazione generica, perché l’umanità per come la si conosce esiste solamente differenziata sessualmente. Nella sostanza del testo, quindi, non vi è alcuna intenzione di creare una qualche forma di gerarchia, anche solo cronologica, tra maschio e femmina. Non vi sono indizi e segnali di alcun tipo che spingano in quella direzione.
L’umanità esiste come presenza inscindibile di due principi - maschile e femminile - che hanno, senza alcuna ombra di dubbio, pari dignità, valore, capacità, possibilità, diritti e responsabilità.
Prova ne è il fatto che in solido ad entrambi, senza possibilità di giustificare precedenze o prerogative differenti, viene dato mandato di governare la terra.
Considerata la struttura patriarcale della cultura in cui questi testi sono stati scritti, l’affermazione del racconto è straordinaria. Che le donne governassero il mondo era una cosa inconcepibile al tempo in cui venne scritto il testo e a pensarci bene ancora oggi il disegno contenuto nella narrazione non è affatto realizzato.
Il progetto divino sull’umanità non è compiuto, dunque questo testo non è un pezzo di museo buono per gli appassionati di archeologia, ma rappresenta una meta verso la quale abbiamo il dovere di camminare e un obbiettivo che dobbiamo darci come dovere da realizzare.
Maschio e femmina sono dunque re e regina del creato e dovranno governarlo al modo in cui lo fa Dio, che non schiaccia, non sfrutta, non manipola ma fa crescere, custodisce, cura.
L’imprescindibilità della differenza sessuale si evidenza soprattutto nella necessità di identificarsi grazie all’incontro con l’altro.
Il maschio non è tale finché non incontra la femmina e viceversa, e il secondo capitolo di Genesi, con il secondo racconto della creazione dell’umano è chiarissimo a riguardo.
Di nuovo si parla inizialmente di Adam. Per la seconda volta, non si tratta del maschio, ma di un soggetto che ancora non ha una definizione completa. Adam è grezzo, coi contorni appena abbozzati, un umano non ancora raffinato, come materia prima in attesa di lavorazione.
La raffinazione avviene quando c’è la distinzione in maschio e femmina: allora l’umanità raggiunge la sua perfezione.
Questo avviene solo nel momento in cui i due possono stare uno di fronte all’altra, fronteggiandosi letteralmente e riconoscendo si come diversi nelle rispettive peculiarità.
In questo secondo racconto c’è però un elemento importante a cui prestare molta attenzione: «Non è bene che l’uomo sia solo» dice Dio dopo aver creato Adam e averlo posto nel giardino.
Da parte di Dio, nella simbologia narrativa, c’è il riconoscimento del fatto che la solitudine non è una cosa buona, che non è adatta alla piena felicità dell’umano. Di più ancora, che non è la condizione per diventare ciò che può e deve essere.
Perciò Dio decide di creare per Adam «un aiuto/alleato che gli stia di fronte». Letteralmente il senso è questo: quel che verrà creato e portato ad Adam gli sarà d’aiuto nella misura in cui lo «fronteggerà». O ancora meglio, l’aiuto nel risolvere il problema della solitudine Adam lo troverà nell’essere «affrontato, fronteggiato» da questa nuova creatura.
Quest’ultima non sarà uno schiavo sottoposto, tutto dedito al benessere di Adam, ma qualcuno che sia alla sua stessa altezza, di pari dignità e grado.
Negli animali non si trova però nulla che risponda a quelle caratteristiche. L’intuizione definitiva di Dio è la creazione di un essere che sia uguale ad Adam, fatto allo stesso modo, della stessa materia, con le medesime caratteristiche, però diverso, perché solo la diversità permette un reale «fronteggiamento» e lo stabilirsi di quel dialogo che può salvare dalla solitudine.
Allora Dio «apre un lato, un fianco» ad Adam e forma un’altra creatura così che i due sono - stando al senso dell’immagine usata - come le due ante di una finestra o i due pannelli di un dittico. I due sono creati in modo tale che uno non possa trovare il senso proprio della propria esistenza senza specchiarsi nell’altra.
La donna viene così condotta ad Adam che immediatamente la riconosce come fatta della propria stessa materia e prende parola per la prima volta. L’umano parla per la prima volta nel testo biblico quando ha di fronte l’altro/a, ma è bene fare attenzione a quel che dice.
Le prime parole sembrano da subito smontare l’esperienza del «fronteggiamento» e sono il tentativo, da parte di quello che è ormai il maschio, di ricondurre a sé la femmina, come se essa non fosse tutt’altra cosa, come se non fosse un individuo a sé stante e di pari dignità, bensì un’appendice o una protesi, una pezzo dell’uomo che è bene rimettere al suo posto.
«Stavolta va bene perché in fondo è un pezzetto di me stesso», sembra dire il maschio, come se fosse lui il criterio di esistenza e considerazione della donna, buona solo perché proveniente da lui.
Prova ne è il fatto che il maschio dà il nome alla femmina come era stato fatto in precedenza con gli animali. Tenendo presente il fatto che dare il nome è una forma di presa di possesso - meglio sarebbe stato chiedere alla donna quale fosse il suo nome - è ancora più sconcertante il fatto che il nome dato è semplicemente la declinazione al femminile di «uomo»: «ish e isha» (uomo e uoma).
La donna diventa complice dell’atteggiamento del maschio, nel momento in cui accetta l’affronto lasciando fare. Non fronteggia l’uomo, non si ribella a questa umiliazione. Il suo ruolo sarebbe quello di ribadire fermamente: «io non sono un tuo prolungamento, siamo simili ma io sono io e tu sei tu».
Ci sono già i semi e i segni del conflitto relazionale che scoppierà nel racconto della violazione del divieto dell’albero che è anche il racconto di una relazione che non è autentica e adulta. I due si rimpallano le responsabilità in modo infantile e dell’alleanza adulta di chi sa fronteggiarsi non c’è nulla.
Alla fine del capitolo 2, infine, l’autore dice che «l’uomo lascerà suo padre e sua madre, si unirà a sua moglie e i due saranno carne-una».
Attenzione: in un contesto patriarcale non era il maschio a lasciare la famiglia ma la donna. Qui si afferma la necessità dell’emancipazione dal clan per entrambi.
Lasciando il clan i due dovranno vivere un continuo impegno all’unione - il testo sottolinea la continuità e il mai concluso lavoro di comunione - non per diventare un mostro nato dalla fusione dei due. Ciascuno dovrà e potrà invece prendere coscienza grazie all’altro/a di essere «una carne unica e irripetibile», di essere individuo singolare chiamato alla comunione.
È incontrandosi e unendosi che si viene a capo della differenza e, viceversa, proprio grazie ad essa ci si può unire sempre di più evitando però di mangiarsi a vicenda.
Spunti di riflessione.
La solitudine.
La creazione dell’«aiuto che sta di fronte» sembra essere, secondo il disegno divino, la soluzione della solitudine. In sostanza: basta che c’è l’altro/a e il problema è risolto. Eppure non è così.
La realtà quotidiana ci dice che della solitudine si fa continua esperienza anche dentro le relazioni più riuscite. Anzi, certe volte è proprio all’interno dei legami più stretti che la si tocca in modo più doloroso.
Dunque Dio non ha risolto il problema una volta per tutte? Oppure quei testi vanno letti diversamente?
I racconti di Genesi e molti altri testi biblici, in particolare quelli di carattere mitologico, ma anche i sapienziali e i profetici, non intendono narrare qualcosa che è accaduto una volta per tutte, bensì presentare e interpretare delle dinamiche che continuano ad attraversare l’umanità.
Insomma, cercano di spiegare, per come han potuto capire fin lì, come funzionano da sempre e per sempre le cose, cosa c’entra Dio e in che modo si possono vivere al meglio.
Quello che Gen 2 descrive è un fenomeno sempre in atto e perciò a quei testi possiamo perciò rivolgerci per raccogliere elementi utili al nostro vissuto quotidiano.
Dunque la solitudine resta e va affrontata, ma come?
Anzitutto possiamo parlare di quella che chiamiamo «solitudine esistenziale», il fatto cioè che si è soli a vivere la propria esistenza e, per quanto profonda possa essere la condivisione empatia degli altri, rimane la percezione che lo spazio della propria esistenza non può e non deve essere occupato da nessun altro.
Essere la "carne una" richiama con forza proprio questa realtà: la tua carne è una, unica e proprio il fronteggiare l’altro ti riporta a questa esperienza, bella e dolorosa.
Per quanto possiate essere uniti, lui/lei non può e - assolutamente!!! - non deve prendere o occupare o invadere quello che Dio ha stabilito come tuo spazio di vita.
Questa, che a volte è così difficile da reggere, è uno dei segni più tangibili del fatto che è proprio vero che questa vita ci è data in dono assoluto, dedicato esclusivamente a noi stessi.
In seconda battuta quella solitudine ha però anche il carattere di una nostalgia di un altro/a, a ricordarci il fatto che siamo esseri parziali e incompleti.
La solitudine non può essere eliminata definitivamente perché, in un certo senso, è la condizione della relazione. Questa, infatti, è il costante tentativo di superamento della solitudine, la risposta, se vogliamo anche l’esito della solitudine.
Le due devono dunque sempre stare in rapporto dinamico. Non c’è relazione senza solitudine e non ha alcun valore la solitudine senza la relazione. Di solitudine si muore per inedia, ma senza essa si muore per soffocamento.
Quando le due dialogano rispettandosi, i legami funzionano, quando non dialogano nascono le distorsioni delle relazioni: rapporti fusionali, il falso mito della complementarietà, quello altrettanto falso dell’anima gemella che Dio ha scelto per me per darmi quel che mi manca, la divisione dei poteri (ai maschi sempre di più e alle donne solo se mascolinizzate), le relazioni «a incastro», la partnerizzazione dei figli, la mancata adeguata emancipazione dalle famiglie d’origine e così via…
Dunque c’è da custodire e preservare anche la solitudine, per quanto possa essere a volte faticosa.
L’intimità.
Come premessa è bene ricordare che c’è una dimensione misteriosa della persona che fa di essa un soggetto in definitiva inafferrabile perfino per se stesso. Ci sono parti di noi ignote a noi stessi, che non conosciamo, non padroneggiamo, ma che esistono e si fanno sentire proprio dentro l’incontro con l’altro.
Questo fa sì che a volte comunichiamo qualcosa di cui nemmeno ci rendiamo conto e altre, invece, che tutto quel che vorremmo condividere non viene in realtà espresso in modo pieno.
Detto questo, soffermiamoci su una dimensione della relazione che è sempre un po’ delicata e può essere anche problematica: quella del segreto.
Alla base dell’intimità c’è - anche - il meccanismo del segreto, di uno spazio che è esclusivamente personale e che si può decidere di far diventare luogo di accoglienza ospitandovi l’altro.
L’intimità non si compie quando finiscono i segreti, quando non c’è più nulla da scoprire, ma al contrario sta in piedi quando permane una dimensione di segreto insieme a quella di condivisione e confidenza.
Abbiamo purtroppo l’abitudine di dare una connotazione immediatamente morale alla questione del segreto sovrapponendolo alla bugia, vedendovi immediatamente qualcosa di fraudolento, come premessa all’inganno o al tradimento.
Occorre invece fare attenzione perché «sincerità» e «trasparenza» sono concetti diversi da questa dimensione di segretezza che l’altro comunque deve mantenere e che ognuno deve custodire.
Avere una o più dimensioni di sé segrete non è affatto detto che sia in contrasto con l’essere sinceri e trasparenti. E rispettare il segreto dell’altro - che significa anche o soprattutto accettare tempi e modi del suo graduale rivelarsi - è un modo concreto e tangibile di dare forma al progetto divino che Genesi racconta, cioè lasciare che l’altro sia un «di fronte», rispettandolo come soggetto che in nessun modo è definitivamente afferrabile.
Perciò, attenzione a quell’intimità che è un: «siccome siamo intimi, mi prendo quel che voglio perché mi sento in diritto di farlo». Ci sono forme di intimità che dentro al «voglio sapere tutto di te», portano la radice del possesso, del controllo, della sfiducia nella forza del legame e nella sincerità dell’altro/a.
L’intimità che sa rispettare il segreto diventa l’occasione in cui la fiducia e l’esperienza dell’affidarsi alla verità dell’amore vengono purificate e raffinate in modo straordinario.
In altre parole, si può anche parlare di limite, di confine. L’intimità è sempre il superamento di un confine per il quale occorre il permesso dell’altro/a che dia accesso alle stanze più nascoste di sé.
Un limite che però va mantenuto, come una soglia ben definita che non deve essere cancellata, pena la possibile fine dell’intimità.