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Questa Lectio è stata proposta all'interno di cinque serate di approfondimento dei Vangeli delle Domeniche di Avvento, svolte nella Comunità Pastorale Madonna del Rosario di Lecco.
Quando furono vicini a Gerusalemme e giunsero presso Bètfage, verso il monte degli Ulivi, il Signore Gesù mandò due discepoli, dicendo loro: «Andate nel villaggio di fronte a voi e subito troverete un’asina, legata, e con essa un puledro. Slegateli e conduceteli da me. E se qualcuno vi dirà qualcosa, rispondete: “Il Signore ne ha bisogno, ma li rimanderà indietro subito”». Ora questo avvenne perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: «Dite alla figlia di Sion: Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su un’asina e su un puledro, figlio di una bestia da soma». I discepoli andarono e fecero quello che aveva ordinato loro Gesù: condussero l’asina e il puledro, misero su di essi i mantelli ed egli vi si pose a sedere. La folla, numerosissima, stese i propri mantelli sulla strada, mentre altri tagliavano rami dagli alberi e li stendevano sulla strada. La folla che lo precedeva e quella che lo seguiva, gridava: «Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli!». (Mt 21, 1-9)
ASCOLTA L’INTERVENTO:
INDICE DELLA LECTIO:
1. Contesto.
2. Note di comprensione del brano.
2.1. L’ordine (vv. 1-3).
2.2. Ecco viene il tuo re, mite (vv. 4-5).
2.3. L’asina e il puledro (vv.6-7).
2.4. Osanna (vv. 8-9).
2.5 Altre provocazioni (vv. 10-17).
3. Spunti di riflessione.
3.1. Vivere (spunti per la conversione del quotidiano).
3.2. Celebrare (spunti per l’Eucaristia).
3.3. Riconciliarsi (spunti per la Confessione).
Contesto.
È interessante far dialogare questo racconto con ciò che Matteo ha già fatto conoscere della regalità di Dio e del suo manifestarsi, cioè il cosiddetto «Regno di Dio».
Anzitutto è il discorso della montagna a costituire un squarcio fondamentale sul tema del Regno. Vi troviamo descritti gli “effetti” del Regno sulla vita di chi lo cerca, si sforza di entrarvi, lo accoglie docilmente. Amore per i nemici, esperienza di figliolanza, di provvidenza, di beatitudine, di autenticità, di riconciliazione, di stabilità.
Poi il regno appare come qualcosa che subisce violenza in Mt 11, 12, dunque che non si oppone al malvagio ma ha parvenze da indifeso.
Il «discorso in parabole» (Mt 13) arricchisce notevolmente l’argomento offrendo vari termini di paragone: il grano e la zizzania, la senape e il lievito, il tesoro e la perla, la rete gettata nel mare. Ne esce il ritratto di un’istanza che oppone il bene al male, che ha il carattere di una forza invincibile eppur discreta e per nulla appariscente, che chiama a collaborare sollecitando la responsabilità personale, che nel farsi appello diventa in qualche modo “giudizio” tra chi accoglie e chi no.
Ancora, il regno ha un criterio di predilezione che è, allo stesso tempo, una via di scoperta: i piccoli, i poveri, i peccatori (Mt 18, 3; 19, 24; 21, 31) sono oggetto di grande cura e farsi piccoli, non accumulare, riconoscere il proprio peccato sono vie di ingresso al regno.
La regalità di Dio poi si manifesta come una forza di liberazione dal male (numerosissime le guarigioni) e che si fa carico della “fame” dell’umanità (cfr. le moltiplicazioni).
Inoltre è un principio di ribaltamento per il quale i primi divengono ultimi e viceversa (Mt 19, 30), chi sta in alto deve mettersi a servire e chi vuol essere il più grande di tutti deve diventare il più piccolo (20, 26).
Infine, nella controintuitiva parabola del banchetto in 22, 1-14 paragonerà la sovranità di Dio a quella degli umorali e violenti sovrani terreni, sollecitando così indirettamente a prendere posizione sulla qualità del Regno di Dio (sembra dire: “Ma davvero pensate sia come quelli?!?”), indicando poi alla fine, nel grande affresco del giudizio, quale sia in definitiva la natura del suo regno.
Il contesto prossimo, invece, dell’ingresso a Gerusalemme è caratterizzato da uno stile provocatorio da parte di Gesù nei confronti soprattutto dei capi del popolo, per sollecitarli rispetto alla sua figura e che finisce con lo scatenare la domanda dei capi sulla sua autorità.
Il brano descrive la prima delle provocazioni e va letto in continuità con il gesto immediatamente seguente che chiude la prima giornata di Gesù in Gerusalemme, quello famoso della cacciata dei mercanti dal tempio.
Note di comprensione del brano.
La struttura del brano è molto semplice: una prima parte costruita sullo schema ordine-esecuzione legata al tema della cavalcatura e arricchita dalla citazione profetica e una conclusione che con la reazione della folla che accompagna l’ingresso festeggiandolo.
Come in numerose altre circostanze, Matteo correda anche questo racconto con una citazione biblica. È una delle sue tante «citazioni di compimento», con le quali l’evangelista cuce la vicenda di Gesù alla grande storia di salvezza di Israele dell’Antico Testamento, mostrando come negli eventi della vita dell’uomo di Nazareth si realizzino a tutti gli effetti le profezie antiche.
Nella comprensione del messaggio complessivo del racconto citazioni come queste si propongono dunque come sfondo interpretativo imprescindibile. Oltretutto, in questo caso e diversamente dalla maggior parte delle altre occasioni, la citazione di compimento si trova prima del racconto stesso, interrompendo il fluire della narrazione e proponendosi dunque come chiave di lettura determinante.
L’ingresso di Gesù a Gerusalemme secondo Matteo va contemplato e compreso dentro la cornice di Zc 9, 9: «Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d'asina».
L'Ordine (vv. 1-3)
Arrivare a Gerusalemme dalla lettura dell’intero Vangelo e, in particolare, da quella del cap. 20 in cui è contenuto il terzo annuncio della Passione, non è un arrivo come gli altri. La città è già stata introdotta da Matteo come il luogo del rifiuto, dello scontro, della morte e resurrezione.
Quel che Gesù si trova di fronte non è solo una città, ma la conclusione del suo cammino di vita terrena, il compimento del suo destino, la realizzazione del disegno di salvezza del Padre suo.
Vi arriva da Betfage e dal Monte degli Ulivi che sta a oriente di Gerusalemme, luogo da cui, secondo Zaccaria, sarebbe giunto il Signore nel giorno della sua venuta.
Da qui, Gesù sembra assumere il controllo degli eventi, poiché quel che segue avviene per suo ordine. Sembra anche conoscere in anticipo e in modo straordinario quel che verrà poi, dando disposizioni di conseguenza.
Prevede perfino un obiezione del padrone del animali alla quale dà mandato di rispondere facendo leva su due elementi: il titolo che si attribuisce e la promessa che segue la richiesta.
Lo schema ordine-esecuzione, tipicamente biblico, mette in evidenza Gesù come colui che entra dentro i giorni della sua Passione non come chi è in balia degli eventi, ma come chi sta governando la regia della storia della salvezza.
Colui che chiede in prestito le due cavalcature è il kyrios, il Signore che dominerà un giorno il cielo e la terra (cfr. 28, 18 «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra…») e che sembra poter disporre dei beni altrui come fa un re con i propri sudditi.
In effetti, Gesù manifesterà la sua sovranità ma questa apparirà con caratteristiche inaudite e che già sono anticipate nella promessa di restituzione delle due bestie da soma.
Ecco viene il tuo re, mite (vv. 4-5)
Lo schema ordine-esecuzione è interrotto dalla citazione di compimento di cui Matteo non precisa la provenienza ma che sappiamo essere la fusione di due versetti provenienti da due diversi profeti: Is 62, 11 (l’invito ad annunciare a Gerusalemme - figlia di Sion - la venuta del Messia) e Zc 9, 9 (l’annuncio vero e proprio dell’arrivo del Signore).
La parola chiave della citazione che diviene fondamentale nell’interpretazione dell’episodio è il termine praus, aggettivo dalle varie sfumature che significa fondamentalmente «benevolo, mansueto, gentile» e che troviamo qui tradotto con «mite».
La scelta di Matteo è molto precisa e di indiscutibile chiarezza: lo stile del Messia atteso è non violento e pacifico. L’espressione non deve far pensare a un sinonimo di debolezza intesa come inconsistenza, incapacità di “governare”, mancanza determinante di forza. Piuttosto nell’uso adeguato della forza, nel rifiuto dell’abuso del potere, nella scelta di orientare, anzi, sottomettere la propria potenza al bene e al servizio dell’altro.
La tipologia della cavalcatura scelta ha sostanzialmente la funzione di evidenziare questo carattere del re che viene. Non sceglie il cavallo che, a quel tempo, era considerato a tutti gli effetti una “macchina da guerra”, non sceglie la mula che era cavalcatura regale, sceglie una bestia da soma, un animale da lavoro che era diffuso nell’ordinario utilizzo della gente.
Risuona immediatamente Mt 11, 29: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero»; come anche la beatitudine della mitezza, quella di chi ha in dote il “governo” della terra poiché condivide lo stile divino.
Gesù manifesta la sovranità del Padre, il Regno di Dio presente, che ha la caratteristica di dare vita non di toglierla, di dare respiro non di soffocare, di sollevare pesi non di imporli. Soprattutto si manifesta come forza dolce e discreta eppure tenace, dal carattere non straordinario ma feriale, familiare e confidente, niente affatto dominante.
L’asina e il puledro (vv.6-7)
Matteo preferisce sottolineare l’obbedienza dei discepoli piuttosto che il preciso realizzarsi delle parole di Gesù.
Portano a Gesù le due cavalcature, le coprono con i mantelli perché Gesù vi monti sopra. Il particolare della doppia cavalcatura rende difficile la lettura della scena. Come può essere salito su entrambi?
Ma Matteo è scrittore dai dettagli poco affidabili e non val la pena tentare di immaginarsi la scena, bensì cogliere la valenza evangelica del gesto profetico che Gesù compie.
Non si tratta di una “marcia su Gerusalemme” alla conquista del regno perduto, nemmeno della parata trionfale in cui far sfoggio delle proprie forze. Non si sono apparati, strutture, autorità schierate. È l’esatto opposto di una parata militare, figuriamoci di una campagna… Almeno nelle intenzioni di Gesù, per come l’evangelista le tratteggia.
D’altra parte, costui che viene è il Re.
Osanna (vv. 8-9)
La folla è straripante e festante, facendo così da contraltare alla città, alla quale porta l’annuncio dell’ingresso del Figlio di Davide. Gerusalemme rappresenta ormai il rifiuto e la chiusura alla Parola di Dio, il luogo dell’Israele testardo, il teatro della morte del Messia.
La gente rende omaggio a Gesù riconoscendone la nobiltà con il gesto eloquente di stendere mantelli sulla strada. Così si faceva per rendere onore al re di passaggio evitandogli di dover mettere i piedi a terra e anche qui Matteo rende poco immaginabile la scena dal punto di vista della verosimiglianza: possibile immaginare tutto il tragitto coperto di vesti? E se già cavalcava l’asino che bisogno aveva di non poggiare i piedi a terra?
In ogni caso, l’obiettivo della scena è ricordare le manifestazioni di gioia che accompagnavano il re al suo ingresso in città. Anche il gesto di deporre fronde a terra o lanciare fiori al passaggio era abitudine consueta e diffusa in occasione della visita di sovrani o nobili.
Le folle gridano acclamazioni e canti di giubilo al Figlio di David, intonando l’«Osanna» (letteralmente «Aiuta!», ma l’uso cristiano ne fece presto un grido di salvezza) e lo salutano con l’espressione che i sacerdoti rivolgevano ai pellegrini sulla porta del Tempio, presa dal Salmo 117. Nella sostanza riconoscono a Gesù un ingresso da Messia, intendendolo però, ovviamente, secondo la concezione messianica tradizionale, cioè come colui che avrebbe ristabilito il regno di Israele portando un’epoca di prosperità e pace.
Matteo però ha già descritto un altro volto del Messia e i lettori ne sono consapevoli, non potendo esimersi dal riconoscere che si tratta di tutt’altro: Gesù si è dedicato a curare gli infermi, ad assistere i poveri, a perdonare i peccatori, ad ammaestrare il popolo sbandato e senza guida.
Il suo ingresso come Messia è una provocazione.
Altre provocazioni
Mentre egli entrava in Gerusalemme, tutta la città fu presa da agitazione e diceva: «Chi è costui?». E la folla rispondeva: «Questi è il profeta Gesù, da Nàzaret di Galilea». Gesù entrò nel tempio e scacciò tutti quelli che nel tempio vendevano e compravano; rovesciò i tavoli dei cambiamonete e le sedie dei venditori di colombe e disse loro: «Sta scritto: “La mia casa sarà chiamata casa di preghiera”. Voi invece ne fate un covo di ladri». Gli si avvicinarono nel tempio ciechi e storpi, ed egli li guarì. Ma i capi dei sacerdoti e gli scribi, vedendo le meraviglie che aveva fatto e i fanciulli che acclamavano nel tempio: «Osanna al figlio di Davide!», si sdegnarono, e gli dissero: «Non senti quello che dicono costoro?». Gesù rispose loro: «Sì! Non avete mai letto: “Dalla bocca di bambini e di lattanti hai tratto per te una lode?”». Li lasciò, uscì fuori dalla città, verso Betània, e là trascorse la notte. (Mt 21, 10-17)
Matteo ci fa sapere che per la città l’arrivo di Gesù è un vero e proprio terremoto che la scuote nelle fondamenta, come già era capitato alla nascita (letteralmente non fu “presa da agitazione”, ma “scossa come da un sisma”). L’ingresso a Gerusalemme, secondo Matteo, non fu un evento marginale. La qualità provocatoria si sente tutta.
Gesù entra nel Tempio e compie una seconda provocazione: la famosa cacciata dei mercanti. Ma ciò che davvero risulta urtante per i capi del popolo è ciò che fa dopo aver rovesciato le bancarelle: guarisce e accoglie l’osanna dei piccoli.
La cacciata per Matteo (realisticamente: dovette trattarsi di un gesto simbolico e di poco impatto, svoltosi, probabilmente, in una zona appartata del cortile dei gentili, richiamando peraltro poca attenzione) serve soprattutto per mostrare l’altro volto del “suo” Messia, colui che guarisce ed è riconosciuto dai piccoli.
Così questa seconda provocazione completa il volto del Messia pacifico che ha fatto il suo ingresso a dorso d’asino: è ben più di un “bonaccione”.
Ciechi e storpi si avvicinano a Gesù come in Galilea: il suo regno è fatto così! Dunque la cacciata non può e non deve essere letta come gesto violento o come autorizzazione a usare, quando serve, anche la forza.
Sconcertante è che i sacerdoti reagiscono alle guarigioni, sentendole come una violazione di uno spazio dedicato ad altro. Ma a che altro può e deve servire “la casa di Dio”?!?
Il vero Israele è fatto di bambini, di poveri, di malati.
Spunti di riflessione.
La vita cristiana è la decisione ad accogliere su di sé la sovranità dolce di Cristo. Il suo giogo è in definitiva l’offerta di una fraternità nella comune figliolanza del Padre. Non c’è modo di sottomettervisi e di riconoscerla, nel contesto di Matteo in particolare, se non in modo pratico.
La qualità di ogni istituzione cristiana, dalla più fondamentale alla più complessa, da una singola famiglia alla più grande diocesi od organizzazione, deve realizzare il volto di quel Dio mite che cavalca l’asino e raduna l’umanità dolente, indifesa, bisognosa di salvezza.
In ogni istituzione c’è in gioco un potere di qualche tipo. Del modo in cui si attua quel potere ne va della qualità cristiana di quell’istituzione.
Vivere (spunti per la conversione del quotidiano)
Farsi carico dei processi di pace.
Aderire al Vangelo non significa semplicemente evitare i conflitti e nemmeno fare “la Svizzera” della situazione. Significa mettersi al servizio di quella condizione di alleanza tra persone, gruppi, soggetti vari che procede per la crescita comune. Occorre maturare un duplice sguardo: considerare i conflitti come l’opportunità di generare un’armonia nuova; avvertire la responsabilità del fatto che la pace è sempre un fatto collettivo.
Il primo sguardo comprende la consapevolezza che la pace non è un evento ma un processo, sempre e comunque. Dunque ha una storia, una complessità di elementi che concorrono, una quantità di fattori molti dei quali non “governabili”. Perciò è necessario avere il realismo di accettare che alla pace vera non si giunga, magari solo una tregua, o un’armistizio.
Il secondo sguardo ci restituisce il fatto che non si fa i cavalieri solitari della pace. Poiché occorrono le condizioni, un contesto, un insieme di concomitanze, è indispensabile pensarsi in rete.
E sulla conflittualità che c’è in giro i cristiani farebbero bene a farci un pensierino.
Celebrare (spunti per l’Eucaristia)
Sviluppare lo «spirito di intercessione».
Siamo abituati a ricordare nella preghiera le situazioni che riteniamo abbiano bisogno dell’aiuto del Signore. Non è raro che ciò si faccia nei termini del “dire una preghiera per…”, quasi che quello sia una sorta di gettone da versare per ottenere l’attenzione di Dio.
Ma noi abbiamo già tutta l’attenzione di Dio per noi, insieme anche alla sua volontà di bene e alla sua profonda conoscenza del problema in tutti i suoi aspetti e dei nostri auspici a riguardo.
Non si intercede per “svegliare il Dio che dorme”, ma per dirsi a Lui disponibili nel «fare un passo in mezzo», cioè per farci carico di una situazione e dunque per chiedere a Lui di comprendere come affrontarla in senso evangelico. L’intercessione è la richiesta di “vedere il suo Regno” all’opera da protagonisti. È il «venga il tuo regno» del Padre nostro.
Riconciliarsi (spunti per la Confessione)
Averla vinta.
Non è che si possa porre tutti i confronti come partite a eliminazione: vincitori o vinti. Altrimenti non ci si può stupire che esplodano continui conflitti.
È proprio l’idea di averla vinta che va eliminato. E forse anche quella di aver ragione.