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«Estranei a casa propria». Gesù, Gerusalemme e Betania.
Quarta domenica dell'Avvento ambrosiano
Capita di non sentirsi più a casa.
A volte è un sottile disagio che serpeggia mascherato.
«Sarò stanca… È un periodo complicato… Ho la testa altrove…».
Altre volte è la violenza di rotture conclamata.
«Non vi permetto più di trattarmi in questo modo… Siamo ormai su mondi differenti… Non posso più continuare a stare qui…»
Altre ancora lo smarrimento per drammi improvvisi.
«Non sarà mai più come prima… Non posso credere che sia successo… Come è potuto accadere…».
Capita di non sentirsi più a casa almeno una volta nella vita - oh, ma sono molte, molte di più - in una delle tante dimore che abbiamo.
La casa natale, la ditta in cui si lavora da una vita, la propria squadra, il gruppo degli amici, l’associazione in cui ci si impegna, il partito che si vota da sempre.
La parrocchia in cui si va fin da bambini, la famiglia che si è costruita, la scuola in cui si insegna da sempre, gli occhi a cui si è giurato amore eterno.
Luoghi in cui ci si sentiva accolti e custoditi. Rifugi sicuri dove le cose trovavano un senso.
Spazi in cui le contraddizioni potevano ricomporsi, le ferite guarire, le domande trovare risposte.
Lì le radici si irrobustivano e pescavano nutrimenti.
Album di memorie che si riempivano costruendo una identità, offrendo un alfabeto, fornendo gli attrezzi per la vita.
Poi d’un tratto sentirsi fuori posto.
Come non appartenervi più, fino ad essere un corpo estraneo.
La terribile sensazione di essere stranieri a casa propria con la certezza di non averne alcuna colpa.
Profughi e sfollati, in cerca di qualcosa che assomigli a un rifugio sicuro.
E adesso che faccio? Dove vado? Da chi vado?
Chi sono ora? E chi ero prima? Mi sono ingannata?
Era tutto falso? In cosa ho creduto fin qui?
Che valore aveva tutto se ora si è sfaldato così facilmente? Cosa avevamo costruito?
Rendendosi conto che non si è più a casa non perché si è perso qualcosa, ma perché si è perso qualcuno.
Mille ragioni, mille situazioni.
Dalla più semplice come la mancata condivisione di una scelta, fino alla più drammatica come la perdita di una persona cara.
Non ci si sente più a casa.
A volte, perfino senza ragioni.
Quando furono vicini a Gerusalemme, verso Bètfage e Betània, presso il monte degli Ulivi, il Signore Gesù mandò due dei suoi discepoli e disse loro: «Andate nel villaggio di fronte a voi e subito, entrando in esso, troverete un puledro legato, sul quale nessuno è ancora salito. Slegatelo e portatelo qui. E se qualcuno vi dirà: “Perché fate questo?”, rispondete: “Il Signore ne ha bisogno, ma lo rimanderà qui subito”». Andarono e trovarono un puledro legato vicino a una porta, fuori sulla strada, e lo slegarono. Alcuni dei presenti dissero loro: «Perché slegate questo puledro?». Ed essi risposero loro come aveva detto Gesù. E li lasciarono fare. Portarono il puledro da Gesù, vi gettarono sopra i loro mantelli ed egli vi salì sopra. Molti stendevano i propri mantelli sulla strada, altri invece delle fronde, tagliate nei campi. Quelli che precedevano e quelli che seguivano, gridavano: «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli!». Ed entrò a Gerusalemme, nel tempio. E dopo aver guardato ogni cosa attorno, essendo ormai l’ora tarda, uscì con i Dodici verso Betània. (Mc 11, 1-11)
Dovette sentirsi così anche Gesù nel varcare le soglie di «casa sua», il tempio di quella Gerusalemme che aveva la vocazione ad essere dimora per tutte le nazioni.
Ci arriva in punta di piedi.
Son gli altri a far baccano e a pretendere che gli si stenda il tappeto rosso, come davanti a chi ha tutto il diritto di entrare e perfino di abbattere la porta qualora non si aprisse.
Ma Lui se ne viene un po’ alla chetichella.
Ha più l’aria dell’ospite che del padrone di casa.
Della gran cagnara che gli fanno attorno mostra di curarsene poco.
Sembra preoccupato di non disturbare.
Sa di poter essere ospite complicato.
Chiede in prestito un somaro, scusandosi in anticipo e promettendo di restituirlo subito.
Non proprio lo stile di un potente padrone di casa.
Piuttosto quello di chi confida umilmente nella generosità altrui e spera nel buon cuore di chi gli darà ospitalità.
Viene da Betania e Betania è casa.
È famiglia, accoglienza, fraternità buona.
Viene da lì, come uno che ha bisogno di essere accolto e lo chiede mitemente.
Entra a Gerusalemme ed è uno che cerca casa.
Un profugo o un fuggiasco, un senza fissa dimora.
Ma quel tempio, la casa di tutte le genti da porto sicuro per il debole e il povero, da rifugio per lo smarrito e il derelitto è diventato tutt’altro.
Il luogo stabile per eccellenza in cui riscoprire le proprie radici e affondarle nel terreno della compassione d Dio è ora instabile e infido.
«Covo di ladri», quelle pietre. Assassini, profittatori, vuoti vanagloriosi drogati di potere i suoi padroni.
Se ne va Gesù allora, sul far della sera, tornando a Betania. Tornando là dove c’è casa.
Dove c’è il Nuovo Tempio, quello costruito sulle fondamenta dell’amore vicendevole e del Vangelo accolto, creduto e vissuto.
Cerca rifugio Gesù, anche lui.
Umilmente va dove sa di poter esser accolto e dove rivedere, nei gesti della fraternità, il volto del Padre suo.
Nessun eroismo. Sentirsi stranieri a casa propria è un’esperienza drammatica e lancinante.
L’aveva già provata a Nazaret, ora di nuovo a Gerusalemme.
Fa male, niente eroismi.
Ma nessuna codardia.
Rientrerà nel tempio a lottare e protestare.
Criticherà, contesterà, rinfaccerà senza alcuno sconto.
Griderà il suo sentirsi estraneo in quel mondo religioso e invocherà la sua conversione.
Gli costerà la vita.
Ma prima tornerà a Betania, a casa.
Lo ungeranno con un bagno di nardo nel gesto dell’ospitalità più grande.
Segno che anticipa la morte e che annuncia insieme la vita: «anche quando tutto sembrerà perduto, tu non ti perderai».
Betania è segno della dimora che il Padre è per Gesù.
Il vero e grande Porto sicuro gli viene annunciato nella cura di una sorella col suo profumo, che gli promette in anticipo un legame che non morirà.
Quella casa non lo salverà dalla Croce.
Ma in quella casa anche la Croce trova un senso perché l’amore che la abita profuma di resurrezione e vita senza fine.
I discepoli del Vangelo hanno il dovere di costruire Betania.
Lo spazio di chi non ha un posto dove andare, in senso materiale, morale, affettivo.
Perché non sentirsi più a casa è un’esperienza drammatica di fronte alla quale si ha il dovere di alzare il proprio lamento.
E anche, senza inutili eroismi, il diritto di cercarsi una Betania in cui farsi curare le ferite.
Sapendo però, infine, che Betania non è la salvezza ultima.
Ma solo un luogo che annuncia e profetizza che la Vita è senza fine, invitando ad alzare lo sguardo al Padre che ne è la sorgente.