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Secondo di una serie di cinque interventi sul tema della Gioia cristiana a partire dal testo della lettera di Paolo alla Chiesa di Filippi.
La serie è proposta all'interno della settimana di esercizi spirituali quaresimali della Comunità Pastorale Madonna del Rosario in Lecco.
GUARDA L’INTERVENTO:
Lectio del testo di Fil 1, 12-30.
Il brano di oggi si divide in tre parti. Nella prima Paolo condivide qualche pensiero circa la propria prigionia; poi, prendendo spunto dalla sua condizione precaria, apre il cuore ai suoi fratelli, condividendo il dilemma che tormenta il suo cuore; infine nella terza parte, Paolo formula qualche raccomandazione perché anche i filippesi affrontino adeguatamente le loro prove, a partire da ciò che vedono nella sua esperienza.
È un brano attraversato da una forte tensione di comunione e da un ricco desiderio di condividere le esperienze, affrontando le difficoltà con una profonda unione spirituale e di intenti.
Paolo ascolta il proprio vissuto, legge la propria esperienza e insieme tiene anche quella dei suoi fratelli. Lascia che dialoghino tra di loro e che la fede in Gesù illumini le esperienze.
La sensazione è che davvero l’Apostolo senta i suoi amici come parte di sé, come membra del proprio corpo e che, dietro il proporsi come esempio da imitare, non vi sia arroganza, ma desiderio di condividere un destino a partire dalla buona scelta del Vangelo.
Se dovessimo riassumere quale cornice inquadra la vita di Paolo potremmo dire: per Cristo, con Cristo, in Cristo. Sono come le tre dimensioni fondamentali della sua vita: Cristo è ciò che orienta le sue azioni, è la compagnia fondamentale dei suoi giorni, è l’origine e la fine del suo cammino.
Il tema della gioia, filo conduttore di tutta la lettera, torna anche qui e cercheremo di coglierne qualche ulteriore elemento.
12 Desidero che sappiate, fratelli, come le mie vicende si siano volte piuttosto per il progresso del Vangelo, 13 al punto che, in tutto il palazzo del pretorio e dovunque, si sa che io sono prigioniero per Cristo. 14 In tal modo la maggior parte dei fratelli nel Signore, incoraggiati dalle mie catene, ancor più ardiscono annunciare senza timore la Parola. 15 Alcuni, è vero, predicano Cristo anche per invidia e spirito di contesa, ma altri con buoni sentimenti. 16 Questi lo fanno per amore, sapendo che io sono stato incaricato della difesa del Vangelo; 17 quelli invece predicano Cristo con spirito di rivalità, con intenzioni non rette, pensando di accrescere dolore alle mie catene.
18 Ma questo che importa? Purché in ogni maniera, per convenienza o per sincerità, Cristo venga annunciato, io me ne rallegro e continuerò a rallegrarmene. 19 So infatti che questo servirà alla mia salvezza, grazie alla vostra preghiera e all'aiuto dello Spirito di Gesù Cristo, 20 secondo la mia ardente attesa e la speranza che in nulla rimarrò deluso; anzi nella piena fiducia che, come sempre, anche ora Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia. 21 Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. 22 Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. 23 Sono stretto infatti fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; 24 ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo. 25 Persuaso di questo, so che rimarrò e continuerò a rimanere in mezzo a tutti voi per il progresso e la gioia della vostra fede, 26 affinché il vostro vanto nei miei riguardi cresca sempre più in Cristo Gesù, con il mio ritorno fra voi.
27 Comportatevi dunque in modo degno del vangelo di Cristo perché, sia che io venga e vi veda, sia che io rimanga lontano, abbia notizie di voi: che state saldi in un solo spirito e che combattete unanimi per la fede del Vangelo, 28 senza lasciarvi intimidire in nulla dagli avversari. Questo per loro è segno di perdizione, per voi invece di salvezza, e ciò da parte di Dio. 29 Perché, riguardo a Cristo, a voi è stata data la grazia non solo di credere in lui, ma anche di soffrire per lui, 30 sostenendo la stessa lotta che mi avete visto sostenere e sapete che sostengo anche ora.
Notizie sulla prigionia (vv. 12-18b).
Nella prima parte, come già detto, Paolo condivide qualche pensiero sulla propria prigionia.
Colpisce come il tono non sia affatto quello del lamento e nemmeno della ricerca di compassione o comprensione. Considerata la condizione di privazione di libertà e di precarietà, un simile atteggiamento è sorprendente. Ma non si tratta di eroismo o di esemplare spirito di sacrificio.
L’Apostolo, pur parlando di sé ed essendo consapevole di quel che sta vivendo, assume un particolare punto di lettura della situazione: il progresso del Vangelo.
Sembra essere per lui l’unica cosa che conta. Ancora di più, sembra che Paolo si consideri realizzato, soddisfatto, riuscito, salvo, beato e consolato nella misura in cui il Vangelo cresce. Se il Vangelo è libero di crescere, Paolo sembra considerarsi libero, anche se in prigione.
Non dobbiamo leggervi, ribadiamo, un esemplare spirito di sacrificio, bensì una scelta più profonda che Paolo ha compiuto: consegnarsi al Vangelo accogliendolo per intero, così da “diventare Vangelo”.
Perciò la sorte del Vangelo è la sua sorte. E quand’anche lui finisca, se il Vangelo procede, allora nemmeno per Paolo sarà una vera fine.
Tutto questo lo si legge molto bene nel modo in cui dà notizie della prigionia: la vede come un’occasione di crescita del Vangelo, perché la notizia si è diffusa e molti altri credenti si sono fatti forza e sono cresciuti nel coraggio dell’annuncio.
Certo, la fede di Paolo non è ingenuità e nemmeno una sorta di autosuggestione che tutto vada comunque bene, il principio di realtà lo tiene saldo in mano. Ciò non gli impedisce di lasciare che sia la fede nel Vangelo a dire una parola sulla realtà.
Così dichiara di sapere molto bene come, tra coloro che diffondono il Vangelo, oltre a tanti credenti sinceri e benevoli, vi siano anche dei disonesti, gente che predica per invidia e gelosia nei suoi confronti, che intende metterlo in cattiva luce o sminuirne l’autorevolezza, gente che si lascia prendere da sciocche rivalità e che cercano di portare ulteriore sofferenza alla sua situazione personale.
Potremmo definirli credenti formali o ipocriti, volendo usare il linguaggio evangelico, persone che apparentemente fanno gli interessi di Cristo ma in realtà curano i propri.
Consapevole di tutto ciò, la reazione di Paolo è sorprendente perché è comunque una reazione gioiosa: quel che conta è che Cristo sia annunciato, in modo ipocrita, in modo autentico, conta che la parola del Vangelo si diffonda.
Ma non solo conta, è occasione di gioia profonda per l’Apostolo.
La gioia di Paolo è che Cristo sia annunciato, ma la sua gioia potrebbe essere ostacolata, potrebbe lasciarsi prendere dalla critica, dalla pretesa di perfezione, dalla voglia di vedere tutto secondo i suoi piani.
È qualcosa che conosciamo molto bene: far coincidere la gioia piena con il raggiungimento di criteri di perfezione e riuscita che siamo noi a stabilire o con la realizzazione di determinate condizioni. Tutto ciò è porre la gioia sotto condizione, impedircene da soli l’esperienza.
Paolo dalla sua posizione potrebbe calcare la mano nella critica, ma sceglie di lasciar spazio alla gioia, cerca i segni di Vangelo anche là dove sono sporcati e un po’ rovinati.
A Francesco d’Assisi, un padre provinciale aveva scritto lamentandosi per delle difficoltà, per impedimenti che dei frati cattivi costituivano per lui e anche per gli altri, rispose: «Non pretendere che diventino cristiani migliori e chi ti impedisce di amare Dio, ama».
Sembra un paradosso, ma c’è invece un’infinita speranza in parole così. C’è tanta fede pasquale, quella che sa che la salvezza di Dio non è solo luce di resurrezione ma anche travaglio di Croce.
La gioia di Paolo dimostra di essere pasquale e di essere fondata sulla speranza che Dio opera comunque e tiene in mano le cose per condurle infine al bene.
Cristo è il vivere di Paolo (vv. 18c-28).
Per questo, poi, dice che questa gioia non sarà passeggera ma lo accompagnerà ancora e sarà una esperienza stabile e duratura.
È ancora la speranza a motivare la sua gioia, quella speranza che lo rende certo che, in un modo o nell’altro, tutto questo concorrerà alla sua salvezza e che, comunque, Cristo sarà magnificato in lui.
Comunque. E a quel comunque dà una portata drammatica dicendo in sostanza: che io viva, che io muoia, tutto andrà a favore del Vangelo, dunque per il meglio.
Dopo aver parlato della prigionia, ora Paolo apre il cuore ai filippesi, condividendo quali drammatici pensieri attraversano il suo tempo di prigionia.
La sua situazione precaria lo spinge a confrontarsi con il pensiero della morte e di fronte ad essa, l’apostolo si dice preso da un dilemma: cosa è meglio per lui e per gli altri? La sua morte? La sua permanenza?
Egli dice che preferirebbe “sciogliere le vele” ed essere con Cristo, ma comprende che è più utile per i fratelli che lui rimanga e a ciò si sottomette.
Tutto ciò, però, lo discute attorno a un principio che fa venire anche un po’ di pelle d’oca: «Per me vivere è Cristo e morire un guadagno».
Cosa c’è dietro un’affermazione del genere? C’è la consapevolezza e l’esperienza da parte di Paolo che è anzitutto vero il contrario: Cristo si è dato tutto per Paolo e per ogni altro, fino a considerare un guadagno il perdere la propria vita.
Nelle parole di Paolo c’è la risposta grata al dono di sé fatto da Gesù: non posso che rispondere dando tutta la mia vita e se morirò, tanto meglio, perché sarò per sempre con Lui.
Si intuisce come, in filigrana, sia questa la vera sorgente della gioia paolina.
Ma Paolo spera di restare, perché la gioia per lui non è un obiettivo personale, ma qualcosa al cui servizio disporsi. La gioia dell’altro, la gioia della fede pasquale di cui sopra.
Prima esortazione e invito all’imitazione di Paolo (vv. 27-30).
Dà subito prova del farsi servo della gioia altrui offrendo qualche raccomandazione per vivere bene il tempo della prova.
L’invito è a guardare in faccia i loro avversari, senza farsi prendere dalla paura, non per fronteggiarli o per colpirli, bensì per essere al loro cospetto dei cittadini esemplari, saldi nel Vangelo e uniti come un’anima sola nel vivere la loro fede.
Questo è il modo in cui accogliere la salvezza che viene da Dio e, allo stesso tempo, di testimoniarla e annunciarla. Vivere secondo il Vangelo senza lasciare che la forza di altri condizioni o pieghi il proprio comportamento è una professione di fede in ciò che si ritiene “vera salvezza”.
Dunque Paolo suggerisce di reagire semplicemente con una vita ancora più cristiana di quella che conducevano. Non invita a impegnarsi a controbattere, a confutare le accuse, a reagire alle provocazioni. L’Apostolo sembra dire che quando si è attaccati per il Vangelo ci si deve semplicemente attaccare al Vangelo con ancora più forza.
La «lotta» da compiere è solo questa. Impegnare ogni energia per vivere con ancora più intensità gli insegnamenti di Cristo. Questa fedeltà concreta al Vangelo è il dare la vita che già Paolo vive, che Gesù ha vissuto e che porterà i filippesi a condividere anche la sua salvezza.
La prova non è la fine del cristiano, ma l’occasione per esserlo ancora di più. La prova non è il termine di ogni gioia, ma il passaggio per entrare in quella più vera.
In questi tempi di prova quel che ci è chiesto, ancora con forza è essere cittadini «secondo il Vangelo».
Quale gioia?
Come si può parlare di gioia in giorni come questi? Non è una mancanza di rispetto? Non è il tentativo di non guardare in faccia alla realtà? Non è un modo come un altro per addormentare le coscienze e anestetizzarle? Non rischia di essere un altro slogan del tipo «tutto andrà bene» mentre è evidente che già ora non tutto va bene.
Lo sarebbe se la gioia che Paolo racconta qui fosse una pacca sulla spalla, una promessa imbonitrice che non guarda in faccia alla realtà. Ma così non è. Paolo scrive guardando in faccia la morte e parla di gioia in faccia alla morte. Senza negare sofferenze, preoccupazioni, timori. Ma affrontandoli in prima persona.
La gioia cristiana ha qualcosa della Pasqua e dunque è anzitutto un sentimento di profonda compassione e comprensione per la fragilità dell’umano ferito e dunque che anzitutto se ne fa carico senza la fretta di correre via.
La gioia cristiana non dice che la sofferenza è una bella cosa e dunque si può sorridere, ne dice tutto il non senso invece. Ma non lo lascia prevalere. Ascoltando la Pasqua di Gesù tenta umilmente e delicatamente di dire che quella sofferenza non è l’ultima parola. E in tutti i segni di ribellione al male vede un frammento di Vangelo annunciato e di Vita promessa.La Gioia di Paolo è certa e garantita anche per il futuro, non come qualcosa che va e viene, soggetta a eventi, umori, tumulti interiori. È stabile e rappresenta per lui un vero e proprio orizzonte di vita.
Verrebbe da chiedere a Paolo: «Come fai tu? Come puoi vivere così? Come riesce ad essere dentro una gioia stabile?». Certamente ci risponderebbe che è frutto della Grazia, ma nel suo atteggiamento riconosciamo un aspetto che certamente favorisce, senza essere la ragione della Gioia.
Paolo vive con un certo distacco dal proprio interesse. O meglio, è un uomo che non sembra vivere ripiegato su di sé. Ha maturato una sorta di sana indifferenza, o meglio, equidistanza da ciò che lo riguarda più direttamente. Non che non abbia preferenze, ma una volta che sa di essere «in Cristo, per Cristo e con Cristo», il resto non fa così tanto la differenza. E poi ha uno sguardo totalmente rivolto al bene di tutti.
Un sano distacco da sé è un’indicazione concreta e certamente provocante. Una Chiesa totalmente rivolta al bene comune e preoccupato non solo di “conservarsi” è una Chiesa che entra nella gioia.