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«Tu sei quel che fai, non quel che pensi»
Leggo questa frase lapidaria in un post, uno dei tanti di taglio spiritual-moral-biblistico che girano su Facebook ogni giorno.
Uno di quelli che dice tante cose vere ma sempre solo in parte, che non possono essere contraddetti in radice e che dunque non possono che beccare il facile consenso, sempre ampio.
Mi ribolle il sangue. Per carità, si tratta di un post, non di un trattato di etica o di antropologia. Però è un post che moltissimi hanno letto. E che, non ho alcun dubbio, molti prenderanno in considerazione perché la frase è pure ad effetto. Perciò mi ribolle il sangue.
Per la superficialità di un’affermazione del genere.
È lo svilimento più banale del mondo interiore: pensieri, affetti, movimenti, desideri, fantasie, gusti, passioni, sensibilità, inclinazioni, riflessioni, ricordi…
Tutto questo che vive dentro di me, che è vivo - oh, terribilmente, straordinariamente, intensamente vivo! - nella mia profondità.
Tutto questo che sa colorare i giorni e le notti, che riesce a dare spessore di senso e a intuire una scintilla di trascendenza nelle singole cose che accadono, che intona in un modo o nell’altro anche un singolo battito di ciglia.
Tutto questo che certo trabocca nel mio agire, ma sempre in modo ambiguo, impreciso, parziale.
Tutto questo non sarei io? Tutto questo sarebbe “virtuale”? Via, su.
Per la rozzezza di parole simili.
Santo cielo. Quale azione riesce davvero a contenermi per tutto ciò che io sono? E come posso affermare che la semplice somma di tutto il mio agire - limitato e precario anch'esso - è la traduzione fedele di quel mistero che perfino io sono a me stesso?
Non che ciò che faccio non sia ”anche” ciò che sono, ma non è esperienza di tutti avvertire spesso, invece, la seria incorrispondenza, anche solo parziale, tra quel che si fa e quel che si è?
Non abbiamo forse bisogno di parole per spiegare il nostro agire? Pure quelle, inadeguate, peraltro. Non soffriamo di frequente del fatto che il nostro «fare» non riesce a tradurre il nostro sentire? Non ascoltiamo, perfino negli artisti, la sofferenza del non sapersi esprimere per intero?
E chi è costretto per necessità ineludibile a fare un lavoro che non ha scelto, che non corrisponde ai suoi valori o addirittura li contraddice? E chi è tenuto in schiavitù? E chi è spinto ad agire sotto ricatto o sotto violenza psicologica? E chi è semplicemente governato da un sistema culturale?
Occorre andare oltre, molto oltre il «fare» per capire chi è un uomo o una donna. Ed è bene evitare di umiliare chi non si riconosce nel proprio agire con tesi morali discutibili.
Per la cecità evangelica che le caratterizza.
Se Gesù avesse ragionato così, mai avrebbe detto di Zaccheo che anch’egli era figlio di Abramo, mai avrebbe rinviato l'adultera senza condanna, mai avrebbe potuto stigmatizzare l’agire irreprensibile di farisei dal cuore marcio.
Il Vangelo è il racconto che le opere pesano, ma l’uomo è mistero che le supera e che va amato per quella qualità, anche oltre il suo agire.
Per i danni che fanno idee così.
Sono pensieri come questi, magari detti a mezza bocca, dentro e fuori dai social, che spingono le persone ad essere e restare schiave di quel che fanno, insinuando il sospetto che mai potranno emanciparsi da una situazione o da un comportamento, facendo sorgere il dubbio che, se sono finite in una certa condizione, alla fine, è perché se la sono voluta o se la sono cercata.
«È vero don, mi ha costretta moralmente a farlo. Ma in fondo, se l’ho fatto è perché lo volevo anche io. Forse, un po’, sono una che si vende».
E chi fa affermazioni come «Tu sei quello che fai», di cose così finisce con l’essere complice. Val la pena, forse, un po’ più di cautela.
P.S.A.C.1
Che poi di mezze verità e frasi a effetto ne ho scritte un mare anche io.
Speriamo, almeno, di non aver fatto troppe vittime.
Post Scriptum Auto Critico ↩︎