Questa Lectio è stata proposta all'interno di cinque serate di approfondimento dei Vangeli delle Domeniche di Avvento, svolte nella Comunità Pastorale Madonna del Rosario di Lecco.
In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.
Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l'hanno vinta.Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce.
Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità.
Giovanni proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me». Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato. (Gv 1, 1-18)
In grassetto il testo della Liturgia della Quinta Domenica d’Avvento Ambrosiano
ASCOLTA L’INTERVENTO:
Contesto
Ci troviamo nel cosiddetto «Prologo di Giovanni», costituito dai primi 18 versetti del primo capitolo dell’omonimo Vangelo.
Cos’è e come va affrontato?
Non va letto come una sorta di “puntata zero” della storia di Cristo precedente all’ingresso del Battista. Lo si desume anzitutto dal registro letterario che è evidentemente diverso rispetto al resto del Vangelo, trattandosi di una sorta di inno che attinge al linguaggio del mito. Dal versetto 19, infatti - versetto da cui inizia la narrazione vera e propria introducendo il Battista - la differenza è estremamente netta.
Non è nemmeno una ouverture in cui si anticipano in motivi che saranno sviluppati in seguito, poiché Giovanni inserisce qui alcuni concetti chiave e alcune idee teologiche che non riprenderà più (su tutte: il concetto di Logos) e alle quali non dedicherà ulteriori approfondimenti.
Infine non si può considerare come un sommario in cui si elencano i passaggi della narrazione che saranno affrontati nel dispiego del testo.
Si tratta, in estrema sintesi, di una sorta di pre-discorso che Giovanni antepone alla narrazione vera e propria delle vicende di Gesù, per offrire al lettore una linea di comprensione del seguito. Il Prologo si pronuncia sulla storia che verrà raccontata, presentando il quadro interpretativo in cui va collocata e ascoltata.
La cornice è costituita dal movimento di discesa compiuto dal Logos nel mondo. Giovanni collega il Logos con il principio primo delle cose e ne traccia il percorso dell’incarnazione, indicando così in Gesù (Logos incarnato) il volto di Dio nel mondo. Nel prosieguo del Vangelo racconterà anche il percorso di ascesa e innalzamento, che invece qui non viene menzionato.
I versetti che commentiamo e che sono parte della liturgia della quinta domenica d’Avvento, sono dunque malamente e inopportunamente estrapolati da un contesto di cui sono parte integrante, che ha una forte unità intrinseca e dal quale dunque non possono assolutamente prescindere per essere compresi.
Diamo un rapido sguardo dall’alto al Prologo per comprendere dove si collocano e che ruolo giocano i versetti che ci proponiamo di analizzare e commentare.
Giovanni costruisce il discorso su due movimenti fondamentali: quello verso il principio e quello dell’incarnazione; di entrambi è protagonista il Logos ed è attraverso al contemplazione di questi movimenti che si comprende l’identità di Gesù.
I due movimenti si dispiegano in tre sezioni: la prima (vv. 1-5) parla del Logos, della sua origine divina e della sua venuta nel mondo, da Lui stesso creato; la seconda (vv. 6-13) presenta il quadro storico della venuta del Logos; la terza (vv. 14-18) parla della risposta dei credenti.
Note per la comprensione del testo
In principio (vv. 1-5)
Il richiamo al principio fa inevitabilmente correre la mente al libro della Genesi, al racconto delle origini, ma va subito segnalata una differenza: qui non c’è a tema l’origine delle cose, bensì ciò che la precede. Potremmo dire che il tema qui è ”il principio del principio”, non cioè il rapporto di Dio con le cose di cui è origine, ma la relazione interna e costitutiva della realtà divina.
Si tratta di ciò che sta prima del creato, che fa da fondamento di possibilità della creazione stessa, la premessa fondativa del dare poi origine alle cose.
Siamo a livello di ciò che all’uomo è inaccessibile e inafferrabile, ciò che sta a fondamento della realtà, che ne costituisce il sottofondo irraggiungibile e dunque anche il senso profondo. Oltre la storia, oltre il tempo: il trascendente in quanto tale.
Giovanni ci sta dicendo che ciò che è avvenuto in Gesù, ciò che abbiamo visto e udito in Lui e da Lui ha a che fare con questa natura inattendibile delle cose.
La prima figura che compare in relazione al principio è il Logos. Il significato del termine, al di là di quello letterale (parola, discorso, ragione, progetto), non è semplice. Semplificando in modo estremo: ciò che caratterizza Dio nel suo principio è una dimensione di «Parola»; con essa è strettamente in rapporto. Parte stessa dell’essenza di Dio è essere «linguaggio», comunicazione, espressione, chiamata e dunque relazione, legame, protensione verso l’altro, apertura.
Quindi: Dio è uno che si comunica e lo fa in un linguaggio articolato; è percepito e conosciuto di conseguenza, cioè necessariamente come appello, chiamata, offerta di senso (non come “potenza”, dunque…); in Gesù di Nazareth si incarna la Parola divina e non vi è altro volto di Dio che non sia Gesù (per quanto Gesù non esaurisca il mistero di Dio).
Giovanni dichiara così che l’origine di Gesù è nel rapporto permanente con Dio e che quest’ultimo è sempre Dio-in-relazione che si concretizza in una parola.
L’evangelista passa poi a definire il rapporto del Logos e di Dio con il mondo. Quest’ultimo è stato creato dal Logos e ogni cosa è opera sua. Il mondo è creazionee tutta la realtà è espressione della sua volontà di mettere in vita. È così che Giovanni invita a stare davanti al mondo, considerando questo carattere relazionale come la sua struttura basilare.
Ma che “discorso” fa questo Logos?
Per chiarire Giovanni utilizza due metafore: la luce e la vita.
La vita è ciò che ognuno anela ma essa non può essere procurata, solo accolta perché è patrimonio di un Altro (il Logos) che fa del dare vita la sua identità. Ogni volta che Dio si pronuncia, mette al mondo. Ogni sua parola è Parola di Vita. Il suo esprimersi, il suo modo di entrare in relazione ha come effetto, obiettivo, senso quello di creare Vita. Non c’è alcun agire di Dio che sia distruttivo e capace di causare morte.
È evidente che ogni rappresentazione di Dio che lo descrive capace di volere morte e orientato ad essa è parziale e/o inappropriata.
Davanti a questo dono di vita l’uomo fa solo l’esperienza di accoglierla, toccando con mano l’incapacità di darsela da sé e di conservarla in assoluto. L’esistenza che viviamo è esperienza dell’accoglienza di un Altro che si fa presente in noi come Vita per noi.
La luce, invece, è ciò che consente di vedere, orientarsi, interpretare. Il Logos è datore di senso e l’esistenza non si comprende se non per mezzo di Lui. Dono della vita e dono del suo senso sono inseparabili. Non c’è vita autentica senza esperienza di senso autentica, tanto che tocchiamo con mano il fatto che quando non riusciamo a dare un senso a ciò che viviamo, sperimentiamo la sensazione di «non vivere davvero».
Non è da intendersi però secondo l’idea che il Logos stabilisce per noi un significato “a priori” di ogni singolo evento della nostra vita. Egli costituisce il grande orizzonte di senso dell’esistenza - che il Vangelo annuncia essere la «vita nell’amore» - e dunque stabilisce la possibilità e crea le condizioni perché ognuno possa fare di sé e della propria vita uno spazio di significati personali e originali. Il Logos è luce perché crea le condizioni del senso della vita che ognuno poi è chiamato a intuire, costruire, concretizzare secondo la propria personale caratteristica.
La venuta del Logos in Gesù soddisfa proprio la ricerca di vita e di senso degli uomini ed è offerta a tutti, senza distinzioni.
Dunque è proprio Gesù la luce che brilla nelle tenebre, nel senso che la sua venuta mostra come non vi sia nel mondo (seppur buono poiché creato da Dio) pienezza di senso, bensì il contrario, soprattutto quando e se si chiude alla rivelazione di Dio.
Come sia possibile tale chiusura Giovanni non lo spiega, quasi fermandosi in estremo rispetto davanti alla soglia della libertà personale. Il peccato dell’incredulità e del rifiuto di ciò che è vita resta un mistero. La certezza, però, è il permanere della Luce che nulla può spegnere.
Un uomo mandato da Dio (vv. 6-8)
Dopo aver parlato del movimento interno alla realtà divina e aver introdotto quello dell’incarnazione, ora l’evangelista si dedica a questo secondo.
Ad introdurre il tempo dell’incarnazione è la figura di Giovanni il Battista. Nel testo originale, il cambio dei tempi verbali e la rinuncia al linguaggio mitico segnalano che si entra nella storia vera e propria, tempi, luoghi, volti, vicende ben precisi e noti.
Il Battista è dunque il primo personaggio storico a essere messo in relazione con il Logos nel quarto vangelo.
Viene presentato come inviato, dunque fa parte a pieno titolo del piano divino e vi occupa un ruolo specifico. Dovrà annunciare e farsi interprete della venuta del Logos nella carne di Gesù, in questo consiste il suo essere testimone (termine giuridico che fa subito pensare allo scatenarsi di un “processo” contro Gesù, riguardante la sua identità).
Il primo atto interpretativo è riconoscere Gesù stesso come «Luce». La potenza divina creatrice, salvifica, vivificante e portatrice di senso si trova presente in Gesù: questo è ciò che il Battista deve dichiarare di Lui. Ma ciò viene espresso da Giovanni in forma di testimonianza, dunque qualcosa che richiede un atto di fede.
Che Gesù sia «Luce» non è un fatto evidente, solo nella fede lo si riconosce tale e solo l’atto del credere fa diventare un evento l’incontro con la «Luce». Tutti possono compierlo, tutti sono chiamati a credere, perché la fede è anche decisione ma anzitutto grazia.
Così anche il ruolo di Giovanni viene definito per contrapposizione: di «Luce» ce n’è una sola e non è lui.
Il Verbo si fece carne (vv. 9-13)
Dopo l’inciso sul Battista, l’evangelista riprende l’inno e descrive la dinamica di rapporto tra il Logos che viene nel mondo e il mondo stesso.
Il tema dell’illuminazione dell’uomo richiama l’esperienza di una vita piena, beata e ricca di senso. Il modo con cui il Logos entra in rapporto con l’uomo è la realizzazione di questo. Una tale qualità di vita è solo dono di Dio e ad essa si accede per mezzo della fede in Gesù, Logos incarnato. Nessuno è escluso da questa esperienza, la missione del Logos è universale.
Questa venuta chiama però a una decisione, non si può restare neutrali o indifferenti. Se non si accoglie la luce si diventa inevitabilmente tenebra.
Il rapporto del Logos con il «mondo» (da intendersi qui come; «realtà umana») è strettissimo ed inscindibile. Si appartengono a vicenda e il primo esercita un’autorità sul secondo poiché ne è il creatore e continua nella sua attività creatrice. Eppure il secondo oppone un rifiuto alla venuta del Logos nella carne. Non lo riconosce e non lo accoglie pur appartenendogli. Non si tratta di un malinteso, però, di una incapacità o di semplice ignoranza. Il rifiuto è una decisione deliberata.
L’incredulità resta, ancora una volta, un mistero inspiegato e inspiegabile. Proprio questo rafforza l’idea che si tratti di una decisione diretta dell’uomo, tanto che è possibile anche il contrario.
V’è infatti anche chi lo accoglie. A costoro - quelli che nella fede riconoscono Gesù come l’inviato da Dio - è data l’occasione di una relazione peculiare con Dio che Giovanni descrive nei termini di «figliolanza», immagine di un rapporto positivo, compiuto e unico con Lui. Questo «atto di fede» va inteso come il riconoscimento di Gesù quale unica fonte di senso autentico per la propria vita.
Essere in un tale legame con Dio significa essere colmati di vita e di luce, cioè accedere a un’esistenza beata, riconciliata, piena, colma di senso. Fede e salvezza sono una cosa sola. Ma tutto ciò è opera di Dio non dell’uomo che non trova in sé (nella «carne» e nel «sangue») la forza di credere. L’atto di fede è un’apertura all’agire di Dio in noi.
Il Figlio che rivela Dio (vv. 14-18)
Il terzo movimento è caratterizzato dal «noi», dalla comunità credente che ha accolto il Logos riconoscendone l’incarnazione.
Proprio Colui che era «presso Dio» ha assunto la natura umana, nella sua radicale differenza rispetto a quella divina, con la sua fragilità, caducità, precarietà.
I tempi verbali utilizzati da Giovanni parlano di un fatto storico preciso, circoscritto e ben identificabile, così come la formula che parla di abitazione sottolinea una presenza reale e tangibile. La «carne» di un uomo è divenuta il luogo della «gloria».
Con questo termine va intesa qui la presenza divina effettiva, quella che permea l’universo, presenza amorosa, creatrice, salvifica e che può essere contemplata in Gesù solo per mezzo della fede.
Il concetto di «gloria» viene poi precisato con l’immagine della paternità-figliolanza. Ciò che lega Dio e Logos è un legame di prossimità e di amore densissimo, perciò in Gesù si vede Dio com’è e si vede ciò che fa sì che Dio sia Dio. Si vede il far dono della vita e della salvezza (la grazia), si vede il suo essere fondamento e senso della realtà (verità).
La seconda testimonianza del Battista ribadisce la corrispondenza di Gesù con il Logos che è presso Dio. Non c’è concorrenza, ovviamente, tra i due, non conta la precedenza storica di Giovanni. Colui che viene nella «carne» è colui che ha fondato il mondo.
Questa presenza divina nella «carne» dell’uomo di Nazareth porta una sovrabbondanza del dono di grazia («e grazia su grazia»), nonostante il mondo porti in sé un principio di irriconoscenza. È evidente come sia assente dal Prologo ogni forma di giudizio sulla realtà umana, presentata solo come oggetto dell’azione positiva e benevola di Dio. La storia della salvezza ha una forma “asimmetrica”.
Che il tempo della venuta del Logos sia quello della pienezza l’evangelista lo ribadisce in chiusura dell’inno, con un commento che dichiara esplicitamente la presenza in Gesù Cristo del Logos e che lo lega strettamente alla storia anticotestamentaria nei termini del compimento. Nella Legge antica che pure era volontà di Dio, non c’era ancora il dono della pienezza di vita che invece in Gesù sono date per grazia e autenticamente.
Per questo, Cristo è, con le sue parole e le sue opere, l’unico e autentico interprete di Dio, colui che può raccontarlo e farlo conoscere, colui che può tradurre la Parola nell’ambito umano. Con Lui, Dio non è più inaccessibile e invisibile. La «carne» che il Logos ha assunto, ha reso comprensibile il “discorso”di Dio.
Spunti di riflessione
Vivere (spunti per la conversione del quotidiano)
Il criterio dell’Incarnazione scelto da Dio per mostrarsi all’umanità non è solo un fatto teologico ma un principio esistenziale cristiano. Desiderare di divinizzarsi non è la strada giusta e tantomeno tentare di farlo. Pensare che il cammino cristiano consista in una sorta di eliminazione di ciò che rende evidente il nostro essere creature è una mistificazione del messaggio evangelico.
La via cristiana passa per una profonda assunzione della nostra condizione umana. Non solo accettazione passiva e rancorosa, ma vera e propria assunzione, tanto degli aspetti di ricchezza ma anche - o forse sopratutto - di quelli di fragilità.
Ciò contempla la conoscenza di sé e il rispetto delle dinamiche che ci costituiscono. Ma anche la passione per l’umano e per le sue espressioni. La comprensione dei limiti e delle fatiche come dimensione imprescindibile e perfino necessaria per sperimentare l’incontro con la «Luce».
Uno dei modi in cui non si rispetta il criterio dell’incarnazione è la banalizzazione o l’eccesso di semplificazione dell’umano, cosa che accade non di rado anche in ambito cristiano quando nel fare la proposta del Vangelo non si tiene conto della complessità della persona e delle situazioni in cui è collocata.
Celebrare (spunti per l’Eucaristia)
È originario in Dio essere linguaggio, espressione, comunicazione di sé. Se il Logos è incontrabile in Cristo, Cristo lo è nel Vangelo in forma unica e peculiare.
Il contatto con la Parola di Dio nel Vangelo e nelle Scritture in genere è imprescindibile. «Sed auditu solo tuto creditur» dice Agostino nell’Adoro te devote. L’ascolto è l’origine della fede.
Non posso riconoscere nel pane spezzato la Presenza del «Christus passus» se non ho gli occhi e il cuore abilitati dall’ascolto. Vedo per la fede, e credo per una Parola che semina in me la fede.
Troppi timori di protestantizzare il cattolicesimo. Timori ingiustificati. Parola e Pane non sono due mense ma la medesima. E il contatto personale con la Parola è insostituibile per stare davanti al mistero eucaristico.
Riconciliarsi (spunti per la Confessione)
L’esperienza autentica della Riconciliazione passa dalla rinuncia al volontarismo e al riconoscimento del primato della Grazia.
Questo vuole dire anzitutto smettere di confessarsi “per fare la Comunione” e cominciare a farlo, piuttosto, per confessare la propria fede nella Misericordia gratuita di Dio.
E poi vuol dire imparare a liberarsi dai sensi di colpa (la voce interiore che ti inchioda al male commesso, accusandoti, facendoti sentire inutile e incapace di riscatto) per sviluppare il senso del peccato, che è invece l’attitudine a riconoscere la Grazia a disposizione della nostra evoluzione e crescita cristiana, proprio quanto tocchiamo con mano di aver lasciato spazio al male.