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Abbiamo immediatamente riorganizzato le attività e ci siamo preoccupati anzitutto di non perdere efficacia operativa e visibilità.
Come se l'esistenza del cristianesimo, come se il senso del suo esserci fosse meramente o principalmente funzionale.
Come se la priorità fondamentale fosse il mantenimento dell'Istituzione, specie nei suoi riti, nelle sue attività, nel suo incessante trafficare pastorale.
Ci si è sentiti morti, dentro la sospensione delle attività.
Finiti, senza significati, come se tutto stesse in quell'"obeso" lavorio in cui si affannano tante comunità cristiane.
Lo si è subito raccontato come "attenzione ai bisogni spirituali delle persone" e non nego a tanti la buona fede in questo.
Ma temo che nella sostanza, e in generale, non fosse proprio così.
Temo fosse più un istinto di sopravvivenza, un'autodifesa istituzionale.
Vero che moltissime realtà hanno riorganizzato le attività caritative cercando di rispondere ai problemi dell'emergenza Covid-19.
Apprezzabilissimo, ci mancherebbe, sarebbe peggio se non ci fosse, ma mi è parsa una "riorganizzazione", appunto.
Perché se a muovere quell'attivismo fosse stato un cuore ecclesiale totalmente dedicato esclusivamente alle persone, messe al primo posto come "santuari" in cui adorare il Dio Padre di tutti - e l’Istituzione a questo serve - sarebbero anche risuonate parole davvero capaci di interpretare questo tempo e il travaglio del cuore di tutti noi.
Ma non ci sono state. Non ci sono.
Posso sbagliare, certamente, forse non vedo bene, non ascolto a sufficienza o forse sono solo io che cerco questo nutrimento. Ma non mi pare.
Anch'io, peraltro, mi sento balbettare e mi interrogo su cosa diavolo stessi facendo, fin qui.
Non si riesce a spendere parole profetiche, incarnate, solide, nutrienti.
Qualcosina qua e là. Poca roba.
Ci siamo dentro tutti, peraltro, senza distinzioni di ruoli e responsabilità.
Balbettiamo.
Manca una sapienza, manca «La Sapienza».
Manca diffusamente, non solo nei cosiddetti pastori che è fin troppo facile criticare, anche se spesso a buona ragione.
Siamo pieni di parole - io per primo, più di tanti altri - che però continuano a girare in bocca col sapore di consolazioni fast-food, senza scendere a nutrire e dare forza.
Di queste se ne mettono in circolo a tonnellate, mentre il pensiero profondo, la capacità di penetrazione del senso delle cose, l'adesione consapevole, intelligente e responsabile alla realtà, lo slancio spirituale libero da moralismi e devozionalismi... poca roba.
Giusto un po' di teologia buona, qua e là e meno male.
Ma «La Sapienza» è altro.
Non mi tolgo dalla mente il fatto che la ragione stia in una profonda distanza di questa Chiesa dall'umano e dalla realtà in cui vive.
Generalizzo e inevitabilmente a qualcuno faccio torto.
Ma mi sembra talmente evidente.
La Sapienza si nutre di umanità, di realtà, di storia nelle quali si intreccia una parola che "viene dall'Alto", per una vita che "rinasca dall'Alto".
Ma senza l'umano, il reale, la storia non c'è Sapienza.
E a me pare che li si abbia proprio persi di vista. Lentamente e gradualmente, magari involontariamente.
Per troppo tempo, forse, passato a cercare di governare l'umanità più che a servirla, a difendersi dalla realtà piuttosto che valorizzarla, a pretendere di fare la storia invece che viverla.
Per fortuna che il Vangelo resta lì, fedele nell'annunciarci che una vita nuova è sempre possibile, pronto ad accogliere le nostre conversioni.