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«Vattene dalla casa di tuo padre». L’Avvento tra Bibbia e B. Springsteen.
La seconda domenica d'Avvento ambrosiano è intitolata «I Figli del Regno». Ne approfondiamo qui il significato, con una meditazione biblica e l'ascolto guidato di alcuni pezzi di B. Springsteen. Secondo di sei interventi proposti alla Comunità Pastorale Madonna del Rosario di Lecco.
Figli del Regno secondo le Scritture.
ASCOLTA L’INTERVENTO:
Gesù e il Vangelo del Regno
Di storie di figli, di padri e madri è piena la Bibbia ed è curioso il fatto che proprio nelle vicende dei più grandi uomini d'Israele, i rapporti genitori-figli siano presentati in modo problematico.
D’altronde Genesi lo dice fin da subito che il legame generativo contiene in sé il seme del distacco - «Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre…» - dunque qualche forma di conflittualità è originaria nelle relazioni familiari e non solo tra genitori e figli.
Eppure lungo l’arco della vicenda biblica, della storia d'Israele fino a Gesù e al suo Vangelo, le categorie di paternità/maternità e filiazione sono usate abbondantemente per descrivere il legame tra Dio e il suo popolo, insieme alla simbolica sponsale.
Questo consente immediatamente due acquisizioni.
La prima: che il legame con Dio non è certo sempre una passeggiata di salute ma contiene anch’esso delle criticità e delle conflittualità come ogni rapporto genitori/figli.
Una seconda, il fatto che se le relazioni familiari offrono un alfabeto per comprendere il rapporto con Dio, quest’altro è occasione per costruire una sana grammatica delle dinamiche familiari, che potranno (dovranno?) essere modellate sul modo in cui Dio si gioca e chiede di giocarsi nella relazione con lui.
La vicenda di Gesù da questo punto di vista è più che esemplare. Il rapporto con Dio e la conoscenza del Suo modo di essere Padre, diventa per Cristo il criterio su cui definire uno stile di relazione ben preciso con il prossimo, per reimpostare gli equilibri con la sua famiglia di origine e con le usanze legate ai clan del suo tempo e per decidere, infine, quale genere di famiglia propria costruire.
Risulta evidente dai Vangeli come la determinazione nell’amare il prossimo - quand’anche fosse un nemico - come un fratello o una sorella non fosse per Gesù una banale buona prassi sociale, ma il modo concreto di essere Figlio di quel Padre.
Il suo stile di dedizione radicale in puro spirito di comunione e servizio era allo stesso tempo: frutto del suo legame con Dio, annuncio e rivelazione del Suo Volto, realizzazione concreta della Sua volontà per l’umanità, presenza viva del Suo regno, esperienza del Suo amore.
A tutto questo fa riferimento l’espressione «Figli del Regno».
Nel Nuovo Testamento la troviamo utilizzata solo da Matteo in due circostanze: in occasione della guarigione del servo del centurione («Ora io vi dico che molti verranno dall'oriente e dall'occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori, nelle tenebre, dove sarà pianto e stridore di denti» Mt 8, 11-12) e nella spiegazione e della parabola del grano e della zizzania («Colui che semina il buon seme è il Figlio dell'uomo. Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno e il nemico che l'ha seminata è il diavolo» Mt 13, 37-39).
Nel primo caso è riferita al popolo d'Israele che rifiuta l’annuncio del Vangelo, nel secondo allude a un altro popolo, un insieme di uomini e donne caratterizzato non più da un’etnia ma da uno specifico modo di essere presente nel mondo.
Se l’idea di figliolanza non richiede spiegazioni, quella di «Regno» ne necessita senz’altro.
Si tratta di un’immagine utilizzata da Gesù nel suo annuncio per indicare una potenza positiva, una forza di governo, un’energia di armonia all’opera nella storia, che si intreccia strettamente con le vicende umane, quelle personali e quelle collettive, quelle anonime e quelle appariscenti, quelle gioiose e quelle drammatiche.
È il farsi presente di Colui che Gesù chiama Padre. Il Regno è la paternità di Dio all’opera in questo mondo e lo è secondo due caratteristiche ben precise: far vivere e amare.
Anzitutto una forza che genera e rigenera vita, facendosene garante perché ci siano le migliori condizioni di ben-vivere.
E poi, una presenza che ama, che crea lo spazio dell’altro e si pone al suo servizio nel modo più discreto, gratuito, forte, tenero, generoso, paziente, misericordioso, libero, attento e definitivo.
La paternità di Dio si manifesta creando le condizioni affinché coloro a cui ha dato la vita possano viverla a loro volta all’insegna dell’amore, facendo della dedizione ai fratelli e alle sorelle il modo concreto per essere Suoi figli.
«Figli del Regno» sono coloro che, accogliendo il messaggio di Gesù, riconoscono in questo Padre (o Madre) la propria origine e colgono l’opportunità d'interpretare tutta la loro vita e i singoli ambiti della loro esistenza a partire da quel riconoscimento.
Questi aprono la strada al Regno, costruendo con il loro agire quotidiano una «economia» - cioè un modo di gestire la “casa comune” della famiglia umana - che è riflesso del cuore di Dio.
Così va inteso quel: «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore…» (Mt 5, 13). Il Regno passa nell’agire concreto di uomini e donne e senza di essi resta incompiuto.
Dovunque c’è qualcuno che opera in armonia con lo stile di Dio che Gesù racconta, lì c’è un «Figlio del Regno», quand’anche fosse un non credente in Cristo.
Dunque, credere nel Dio che Gesù incarna, comporta un percorso di costante e graduale conversione delle modalità di rapporto, anche, o forse in special modo, di quelle familiari.
Per approfondire tutto questo, facciamo una scorribanda biblica dentro la vicenda di uno dei grandi patriarchi d'Israele - Abramo - la cui storia rileggeremo da una prospettiva differente dal solito.
Proveremo infatti a cercare, nel cammino che il capostipite d'Israele compie, un’evoluzione del suo approccio relazionale e la faremo dialogare con le caratteristiche dei «Figli del regno» che Gesù tratteggia nella sua predicazione.
Abramo e la conversione della sua umanità
Terach e la casa soffocante - le radici tossiche
Questa è la discendenza di Terach: Terach generò Abram, Nacor e Aran; Aran generò Lot. Aran poi morì alla presenza di suo padre Terach nella sua terra natale, in Ur dei Caldei. Abram e Nacor presero moglie; la moglie di Abram si chiamava Sarài e la moglie di Nacor Milca, che era figlia di Aran, padre di Milca e padre di Isca. Sarài era sterile e non aveva figli. Poi Terach prese Abram, suo figlio, e Lot, figlio di Aran, figlio cioè di suo figlio, e Sarài sua nuora, moglie di Abram suo figlio, e uscì con loro da Ur dei Caldei per andare nella terra di Canaan. Arrivarono fino a Carran e vi si stabilirono. (Gen 11, 27-31)
Al racconto di Babele segue uno dei classici elenchi genealogici che descrive la discendenza di Sem, figlio di Noè. La lista si interrompe bruscamente con la famiglia di Terach, padre di Abramo.
Improvvisamente la sterilità e la morte fanno irruzione nel fluire delle generazioni toccando la carne dello stesso Abramo: la moglie è sterile e il fratello muore. La famiglia di Terach sembra segnata dalla morte più che da una promessa di vita.
C’è un particolare del racconto che però balza all’occhio ed è la quantità di possessivi riferiti a Terach utilizzati per descrivere la famiglia. Sono tutti “suoi”, una proprietà. D’altra parte il modo in cui prende e sposta il clan non è diverso da quello usato per un gregge.
L’impressione che si ha della famiglia di Abramo, è quella di un clan asfissiante e totalizzante, caratterizzato da un’appartenenza fusionale e da una stretta sottomissione al padre autoritario che decide per tutti, senza sconti.
La situazione è l’esatto contrario di ciò che Gen 2, 24 aveva detto: «L’uomo abbandonerà suo padre…». L’infertilità di Sarai e Abramo è l’immagine di un ambiente che non permette lo svilupparsi fecondo della vita.
È importante osservare come nei Vangeli Gesù definisca se stesso anzitutto come figlio e rimanga nei fatti per sempre tale senza mai generare. Inoltre invita addirittura a non chiamare nessuno “padre” sulla terra «perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo».
Lo statuto di ogni uomo e donna è anzitutto e sempre essere figli, cioè generati, provenienti da qualcuno, con dei tratti comuni riconoscibili, legati da una stessa origine.
La questione è conoscere e riconoscere l’origine dell’essere figli e figlie, perché essa faccia da criterio per ogni altro legame.
Gesù è un «nato da donna» nel senso che la figura paterna è, nella sostanza della narrazione evangelica, praticamente assente. C’è solo il Padre del cielo. Nei fatti è una contestazione forte di certe genitorialità terrene che tutto sono tranne che un riflesso di Dio.
Gesù non costruisce una famiglia tradizionale, ma una famiglia fatta solo di fratelli e sorelle, in cui non si genera (nessuno è padre o madre se non per ragioni esterne a quella comunità) ma si tocca con mano la paternità di Dio nel legame di fraternità e sororità.
È in questa prospettiva che si può comprende il dettame: «Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me» (Mt 10, 37).
Vattene verso te stesso - La promessa divina
Non stupisce che si senta risuonare per voce di Dio la stessa parola del racconto delle origini:
Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. (Gen 12, 1)
Il nome Av-ram può significare: «il padre è esaltato», quasi che il destino di Abramo non fosse quello di condurre un’esistenza propria, bensì una vita dedicata all’accrescimento della reputazione del padre, nell’esaltarlo e nel farlo grande.
L’ordine ricevuto lascia intendere ad Abramo che il desiderio di Dio è che si liberi da quella morsa, esca dall’ombra del padre e trovi se stesso.
Il «vattene» intimato, infatti, corrisponda a: «va’ per te / va’ verso di te / va’ in te». Il viaggio è per il bene di Abramo, per la scoperta della sua identità autentica, verso la verità del suo essere uomo.
Egli diventerà padre di molte generazioni, ma la condizione è liberarsi dalla catena del legame con Terach per diventare un uomo diverso. Il cammino del grande patriarca non sarà solo fisico, ma umano e spirituale.
Se c’è una caratteristica dei «Figli del Regno», questa è la loro sovrana libertà, anzitutto di fronte a Colui che quella libertà gliel’ha donata.
La possibilità di scegliere e decidere, se è certamente limitata dalle contingenze, non lo è dalla volontà di Dio. Non si è al mondo sotto condizione e non si riceve vita dal Padre/Madre “a patto che…”.
Il dono della libertà responsabile è serio, ma anche severo, nel senso che ciò che più è deprecabile agli occhi di Dio non è certo approfittarsene della libertà che dona, bensì il contrario!
La parabola dei talenti ha questo significato. È un tradimento grave nei confronti del donatore seppellire il dono ricevuto. Dio genera nella libertà e vivere come se ci tenesse per le briglie è deformarne gravemente il volto.
Così va anche ascoltato quel: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti…» che Gesù dice a quell’uomo che non voleva liberarsi dalla catena mortifera di legami imprigionanti.
In Egitto: Abram il manipolatore e Sarai la complice
Ma i tratti del padre sono fortemente impressi nel figlio e non gli basterà andare fisicamente lontano. C’è un Terach che Abramo porta scritto in sé e che emerge inevitabilmente.
Venne una carestia nella terra e Abram scese in Egitto per soggiornarvi, perché la carestia gravava su quella terra. Quando fu sul punto di entrare in Egitto, disse alla moglie Sarài: "Vedi, io so che tu sei donna di aspetto avvenente. Quando gli Egiziani ti vedranno, penseranno: "Costei è sua moglie", e mi uccideranno, mentre lasceranno te in vita. Di', dunque, che tu sei mia sorella, perché io sia trattato bene per causa tua e io viva grazie a te". (Gen 12, 10-13)
La tossicità dello stile manipolatorio di Terach è tutta nella considerazione, da parte di Abramo, di Sarai quale merce di scambio.
Un atteggiamento vorace e rapace, da uomo proprietario della sua donna, la quale, peraltro, si dimostra connivente nella sua accettazione passiva. L’aria di “casa Terach” ha inquinato anche lei.
I due sembrano tradire nei fatti ciò a cui Dio ha destinato la donna e l’uomo nella creazione: essere l’uno «come di fronte» all’altro. Fatti come soggetti autonomi e originali che nel «fronteggiare» l’altro si aiutano vicendevolmente a scoprire la propria dignità, identità e ruolo.
La manipolazione qui in atto è l’esatto opposto di ciò che Dio fa creando. Egli, infatti, genera stabilendo uno spazio di vita per l’altro che mai invaderà e su cui mai spadroneggerà, ma che, invece, custodirà con cura nella sua diversità.
Nelle tentazioni del deserto, Gesù rigetterà esattamente questa modalità di relazione con l’altro, con il mondo con se stessi. Manipolare il creato, manipolare il prossimo, manipolare Dio divorando ogni cosa nell’illusione che in quello ci sia salvezza e facendosi guidare dal terrore della morte.
Ma i «Figli del Regno» non sono figli della paura, non credono di salvarsi da sé e vivono nella fiducia di una vita donata da un Altro.
La vicenda di Agar e Ismaele: Sarai la manipolatrice e Abram come complice
Assumere lo stile di Dio sembra difficile e gli episodi negativi si ripetono.
Sarài, moglie di Abram, non gli aveva dato figli. Avendo però una schiava egiziana chiamata Agar, Sarài disse ad Abram: "Ecco, il Signore mi ha impedito di aver prole; unisciti alla mia schiava: forse da lei potrò avere figli". Abram ascoltò l'invito di Sarài. Così, al termine di dieci anni da quando Abram abitava nella terra di Canaan, Sarài, moglie di Abram, prese Agar l'Egiziana, sua schiava, e la diede in moglie ad Abram, suo marito. Egli si unì ad Agar, che restò incinta. (Gen 16, 1-4)
La situazione della fertilità ristagna e dunque Sarai prende l’iniziativa. Lo fa attribuendo la responsabilità di tutto a Dio, che ai suoi occhi ha in qualche modo i tratti egoistici di Terach.
Sarai cerca dunque una soluzione tutta sua, dando una risposta umana a un problema apparentemente causato da Dio.
Il verbo utilizzato nel descrivere ciò che Sarai desidera è il termine «banah» che vuol dire sia «avere un figlio» che «essere costruita». È utilizzato in Gen 2, 22 quando Dio ”costruisce” la donna con il fianco dell’uomo, costituendola come soggetto proprio nella relazione tra i due.
La moglie di Abram intende farsi madre da sé a dispetto della promessa divina. Una vera bramosia orientata solo alla propria soddisfazione, senza il minimo scrupolo nell’usare gli altri come strumenti.
Come Eva prese e diede il frutto ad Adamo “obbediente”, così Sarai «prende» e «dà» Agar a un Abram silenzioso e connivente.
C’è quel passaggio sconcertante del discorso della montagna in cui Gesù raccomanda di non affannarsi per il cibo e il vestito ma di cercare il Regno. Il senso è che c’è un modo pagano di procurarsi il necessario e un modo che è da «Figli del Regno».
La moltiplicazione incarna lo stile di questi ultimi. Più che l’invito a dare il poco che c’è “tanto poi ci pensa Dio”, è piuttosto la provocazione a occuparsi gli uni degli altri, senza perdersi nel «ciascun per sé» e senza vivere «alla speraindio», ma cercandoLo nella solidarietà concreta.
La circoncisione: Abramo uomo nuovo.
«Quanto a me, ecco, la mia alleanza è con te: diventerai padre di una moltitudine di nazioni. Non ti chiamerai più Abram, ma ti chiamerai Abramo, perché padre di una moltitudine di nazioni ti renderò. E ti renderò molto, molto fecondo; ti farò diventare nazioni e da te usciranno dei re». Disse Dio ad Abramo: «Questa è la mia alleanza che dovete osservare, alleanza tra me e voi e la tua discendenza dopo di te: sia circonciso tra voi ogni maschio». Dio aggiunse ad Abramo: «Quanto a Sarài tua moglie, non la chiamerai più Sarài, ma Sara. Io la benedirò e anche da lei ti darò un figlio; la benedirò e diventerà nazioni, e re di popoli nasceranno da lei». (Gen 17, 4-6.10.15-16)
Il nuovo nome («Avraham») gioca d’assonanza con l’espressione «padre di nazioni» («av-hamon goyim») e proietta chi lo porta nel futuro e nella promessa di un domani migliore, contrariamente al nome vecchio che ne era la negazione.
Il «camminare verso se stesso» a cui l’aveva chiamato Jahvè conduce il patriarca alla scoperta della sua identità autentica e profonda: un uomo proiettato sul domani delle nazioni.
C’è un segno da porre, la circoncisione, un’operazione che comporta una ferita e una perdita. L’integrità della persona è così violata una volta per tutte con un segno che tocca il maschio in uno degli elementi rappresentativi della forza, del dominio, della volitività.
La circoncisione è l'invito di Dio perché Abramo riconosca di essere in difetto, di non avere tutto e di non essere tutto. È l’accettazione dell’essere debole e mancante, ma anche la rinuncia al dominio e alla voracità.
Ecco perché non chiamerà più sua moglie «Saray» (nome maschile plurale caratterizzato da un possessivo, che significa «miei principi/capi») ma «Sarah» (nome femminile senza alcuna particella possessiva, che significa «principessa»).
Abramo deve smettere di fare il capo di sua moglie, riconoscendole una dignità unica e attribuendole il ruolo di «madre di re», come peraltro è stato promesso.
«Figli del Regno» sono quelli che abbandonano le logiche di potere e di affermazione e smettono di definire l’altro a partire da se stessi.
È il «gioco dolce» che Gesù promette, cioè in sostanza l’assenza di qualsiasi «giogo» (gioghi leggeri non esistono…). Egli non intende governare e ancora meno spadroneggiare e chiede, dunque, che si viva lo stesso stile di mitezza e umiltà.
Il non sacrificio di Isacco e Abramo che diventa libero e liberante.
Il famigerato non-sacrificio di Isacco è il passaggio stretto con cui Abramo si libera finalmente dai fantasmi passati e diviene protagonista di una paternità meravigliosa.
Dio offre al suo eletto una «prova», cioè, biblicamente un «test», un’occasione in cui venga alla luce chi è davvero Abramo e cosa pensa del suo Signore.
Questo è il nocciolo del test: Isacco è un dono di Dio, promesso e infine ricevuto, che ne farà Abramo? Lo terrà come un possesso schiavo della cupidigia come faceva Terach con lui, o lo collocherà nel contesto dell’alleanza con Dio, come segno di scambiato (cioè figurativamente un sacrificio), dimostrandosi libero dal trattenerlo?
Così gli dice Dio:
«Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: "Abramo!". Rispose: "Eccomi!". Prendi tuo figlio, il tuo unico/unito che ami, Isacco, e vattene verso la terra di Mòria e fallo salire là per un olocausto su una delle montagne che io ti dirò”» (Gen 22, 1-2).
C’è un richiamo esplicito all’inizio del cammino, quando Abramo inizia il suo percorso di liberazione dalla relazione fusionale con il padre.
Dio sa quanto Abramo sia legato a Isacco e l’aggettivo usato lo sottolinea (yahid= unico, unito). Saprà il patriarca lasciare libero il figlio perché divenga autonomo? Isacco è per Abramo o per Dio? Abramo sarà padre a immagine di chi? Di Dio o di Terach?
L’ambiguità dell’ordine dato (deve sacrificare il figlio, o deve salire con il figlio a fare un sacrificio?) crea lo spazio della prova.
La scelta finale di Abramo è di non trattenere il figlio per sé. Il senso dell’espressione nel testo è proprio economico: non lo risparmia, non lo conserva per sé come sua proprietà.
Abramo mette cosi al mondo Isacco, non come “suo figlio”, ma come uomo individuato nella sua identità precisa. Non è più nemmeno “il figlio della promessa”. E Abramo scende dal monte da solo, pronto per diventare padre di nazioni e specchio - ora sì - della paternità vivificante di Dio e non di quella tossica di Terach.
Ecco il mandato rivolto proprio ai «Figli del Regno»: «Siate perfetti come perfetto è il padre vostro celeste».
Padri e figli secondo B. Springsteen.
ASCOLTA LA REGISTRAZIONE DELL’ASCOLTO GUIDATO:
QUI I TESTI E LA TRADUZIONE:
«Padri e figli» secondo B. Springsteen.
Quelli da cui vogliamo amore ma non lo otteniamo sono quelli che imitiamo. E l’unico potere che abbiamo per ottenere la vicinanza e l’amore si cui abbiamo bisogno e che desideriamo. Quindi quando da giovane cercai una voce che si fondesse con la mia, che cantasse le mie canzoni e raccontasse le mie storie, scelsi quella di mio padre. Perché per me aveva qualcosa di sacro. Quando cercai qualcosa da indossare misi i vestiti da lavoro, perché erano quelli di mio padre. Tutto quello che sappiamo sugli adulti è ciò che abbiamo visto e imparato dai nostri padri. Mio padre era il mio eroe e il mio più grande nemico. Non molto dopo la sua morte, feci un sogno. Sono su un palco davanti a migliaia di persone e mio padre è lì tra il pubblico, tornato dal mondo dei morti. E all’improvviso mi inginocchio a fianco a lui. E per un momento guardiamo entrambi l’uomo su di giri sul palco. Poi mio padre, che per anni è stato seduto al tavolo in cucina, irraggiungibile, in quella che ero troppo piccolo e stupido per capire fosse depressione. Mi sono inginocchiato di fianco a lui, gli ho accarezzato il braccio e gli ho detto: «Guarda papà, quel tipo sul palco, è così che ti vedo». (Springsteen on Broadway, 2018)
Nelle parole qui sopra citate, troviamo la sintesi estrema del rapporto tra Springsteen e il padre.
Un personaggio difficilissimo quest’ultimo. Uomo ruvido, distante e cupo. Malato di depressione, solito ad abusare dell’alcool, distrutto dal lavoro in fabbrica e da una storia familiare segnata da dolori importante.
Incapace di affetto per il proprio figlio e, forse, per chiunque altro e abituato ad allontanare soprattutto le persone che più lo amavano, facendole soffrire con atteggiamenti umilianti e scostanti.
Confrontarsi con il padre è, per Springsteen, una lotta per tutta la sua vita. Una lotta per liberarsi dal suo fantasma, da giovane, una lotta per riconciliarsi con lui da adulto. Una lotta con la paura che la malattia del padre si insinuasse in lui come un marchio inevitabile. Una lotta, una volta morto, per trasformare il padre da fantasma ad antenato.
Un uomo che Springsteen, nonostante il male subito, ama disperatamente cercandone la stima e il riconoscimento, attendendosi almeno un riscontro di uno sguardo benevolo, ma ricevendo in cambio la considerazione che si riserva a uno smidollato buono a nulla.
Tutta la produzione di Bruce Springsteen è un corpo a corpo con Douglas Springsteen: ricerca, rassegnazione all’impossibilità e riscatto.
Tra le immagini che sceglie per raccontare il rapporto ci sono queste.
Per un bambino, i bar di Freehold erano cittadelle misteriose, luoghi saturi di una magia sinistra, d’incertezza e di violenza. Entrare nei bar della mia città significava avere accesso al regno mitologico degli uomini. «Va’ a prendere tuo padre» mi ordinava puntando il dito. L’idea d'introdurmi nel santuario di papà mi riempiva d’emozione e terrore. Dal basso vedevo lo sgabello, le scarpe nere, le calze bianche, le anche e le gambe muscolose di papà, i pantaloni da lavoro, la cintura e il volto lievemente sbiancato e deformato dall’alcol che mi fissava nel fumo di sigaretta mentre pronunciavo le parole immortali: «Mamma vuole che torni a casa». Niente presentazioni agli amici, niente buffetto sulla testa, niente tenerezza nella voce, niente capelli scompigliati, soltanto: «Va’ fuori, arrivo subito». B. Springsteen, Born to run, Milano, Mondadori, 2016)
Non ero esattamente il cocco di papà. Pensavo che gli uomini fossero così: distanti, taciturni e troppo presi dal mondo adulto. B. Springsteen, Born to run, Milano, Mondadori, 2016)
Una sera mio padre mi stava insegnando qualche colpo di boxe in soggiorno. Ero emozionato, lusingato dalle sue attenzioni e ansioso d'imparare. Le cose andavano bene, finché lui non mi assestò sul volto qualche colpo a mano aperta appena troppo vigoroso. Non mi fece male, però mi offese: avevamo superato un limite. Quei colpi significavano che eravamo entrati in un territorio oscuro che trascendeva il rapporto padre-figlio. Mio papà mi stava dicendo che ero un intruso, uno sconosciuto, un rivale in casa e una cocente delusione. Mi si spezzò il cuore e mi accasciai; lui se ne andò disgustato. Quando mi guardava, non era soddisfatto di ciò che vedeva. Era questa la mia colpa. (B. Springsteen, Born to run, Milano, Mondadori, 2016)
A ferire Bruce non erano tanto le lezioni che gli venivano impartite, le critiche o le discussioni accese, ma il vuoto che leggeva negli occhi del padre quando Doug entrava in una stanza. Quando Bruce si girava verso di lui sperando di cogliere nel suo sguardo un qualche minimo segno (una scintilla di orgoglio, un moto di amore, un vago accenno di stima) in fondo a quegli occhi trovava solo un vuoto tremendo. “Il problema non stava tanto in ciò che faceva, ma in ciò che non faceva” racconta Bruce. “Era la sua totale mancanza di riconoscimento nei miei confronti. Era la sua assenza.” (Carlin Peter Ames, Bruce, Milano, Mondadori, 2013).
Purtroppo, le sue interazioni con me avevano luogo quasi sempre dopo il rito serale quotidiano delle sei birre scolate una via l’altra nel buio pesto della cucina. Era sempre la stessa storia: dopo qualche istante di finta preoccupazione genitoriale per il mio benessere, mio padre dava sfogo a tutta l’ostilità e la rabbia incontenibile nei confronti del figlio, l’altro uomo di casa. Era uno spettacolo penoso. Mi voleva bene, ma non mi sopportava, perché gli sembrava che fossimo in competizione per l’affetto di mia madre. Il che era vero. E poi, guardandomi si vedeva allo specchio. Corporatura taurina, indossava sempre i vestiti da lavoro, un uomo forte e fisicamente temibile. (B. Springsteen, Born to run, Milano, Mondadori, 2016)
Un giorno, quando rincasai dopo la scuola, scoppiò a piangere al tavolo della cucina. Mi disse che aveva bisogno di qualcuno con cui parlare. A quarantacinque anni non aveva amici, e per colpa delle sue insicurezze io ero l’unico maschio che poteva mettere piede in casa. Mi aprì il suo cuore: fu un’esperienza scioccante e imbarazzante, ma allo stesso tempo stranamente meravigliosa. Mi rivelò tutto il suo caos interiore. Fu uno dei giorni più indimenticabili della mia adolescenza. Aveva bisogno di un amico «uomo», e l’unico in circolazione ero io. Feci del mio meglio per rassicurarlo. Avevo sedici anni, ed eravamo entrambi molto confusi. (B. Springsteen, Born to run, Milano, Mondadori, 2016)
Adam raised a Cain
(Darkness on the edge of town, 1978, CBS records)
Il primo pezzo è una scarica rabbiosa.
Il grido di una chitarra distorta che apre la canzone e la spezza con un assolo intenso e tagliente.
La voce di Springsteen alterna tra un incidere appesantito e lo strappo aggressivo del ritornello.
Si parla di un amore che è come una catena, un condanna a morte. Il sangue che scorre nelle vene di padre e figlio è lo stesso ma è un sangue malato.
Il legame tra i due lascia in eredità solo il peccato e il vincolo è un marchio al quale non si può sfuggire.
Si vive pagando il peccato di altri e la gente cerca di farti stare a forza nel ruolo e nel posto che è stato di tuo padre.
Il padre ha sofferto molto a causa del lavoro che è visto come prigione e come maledizione di dolore. E ora cerca solo qualcuno da incolpare.
Non c’è spazio per entrambi in una casa così. Uno sulla porta, l’altro fuori nella pioggia.
E Springsteen ritroverà dolorosamente in sé i segni dello stile del padre. Racconta così i primi tempi del legame con Patti, la seconda moglie. Si sente tutto il dramma di un’eredità da cui è quasi impossibile liberarsi.
A casa io e Patti litigavamo spesso. Come mio padre, coltivavo un’ostilità passiva: il mio stile era negare e intimidire, non affrontare i problemi di petto. Lui teneva la famiglia sotto controllo stando seduto in silenzio... a fumare. La rabbia si accumulava fino a esplodere, poi annegava nella birra e in un silenzio monacale. Era un campo minato, la casa piena della micidiale quiete di una zona di guerra, e noi a camminare in punta di piedi, aspettando... aspettando... la detonazione. Che sarebbe arrivata era sicuro, solo non sapevamo quando. Tutto questo mi era filtrato nelle ossa, con effetti rovinosi.
Volevo distruggere chi mi amava perché non sopportavo di essere amato. Che qualcuno avesse l’impudenza di amarmi mi mandava in bestia e mi indignava: nessuno mi ama... e ora ti mostro perché. Era terribile, un effetto collaterale del veleno che mi scorreva nelle vene e nel DNA. Ero assertivo e attivo, un’affermazione di non impotenza. La passività degli uomini con i quali ero cresciuto mi spaventava e mi riempiva di rabbia; la mia passività mi imbarazzava, per questo andavo in cerca della mia «verità».
Era la lezione del mio vecchio. Mio padre era riuscito a convincerci che ci disprezzava perché lo amavamo, che ci avrebbe puniti... e fu di parola. Lo faceva impazzire... e altrettanto valeva per il sottoscritto. Quando scoprii questa parte di me ne fui spaventato e disgustato, ma non per questo tentai di sopprimerla, anzi, la conservavo come una fonte d’energia malevola alla quale ricorrere quando mi sentivo psicologicamente minacciato, quando cioè gli altri tentavano di fare qualcosa che non riuscivo proprio a tollerare... avvicinarsi a me. (B. Springsteen, Born to run, Milano, Mondadori, 2016)
Indipendence day
(The river, 1980, CBS records)
Dunque in quella casa non c’era posto per entrambi e Springsteen capisce che quella casa va lasciata per conquistare una vera e propria indipendenza.
Non c’è possibilità di riconciliazione e di ricomposizione del conflitto. Dunque meglio scrivere la parola fine e lasciare spazio solo a un addio.
Non c’è più nulla da fare, parole da dire, niente che possa cambiare le cose. Meglio salutarci e dormirci su.
È il giorno dell’indipendenza da quel padre e da quel legame. Ma anche dal male che hanno fatto al padre e che Springsteen non ammette sia fatto anche a lui.
Bruce non si spiega perché le cose siano andate così. Incomunicabilità o altro? Forse erano solo troppo fatti della stessa pasta. Forse il padre temeva che il figlio gli portasse via qualcosa di caro.
Il brano si chiude proprio così, con B. che si scusa dicendo che ora capisce tutte le cose che il padre voleva ma non ha mai potuto dire, ma che lui, però, non ha mai inteso portargli via.
My father’s house
(Nebraska, 1982, CBS records)
Eppure il desiderio di quella casa resta e Bruce lo racconta in un pezzo che è il capolavoro tra i brani che parlano di suo padre.
Pesca le immagini e le atmosfere di trascendenza e spiritualità oscura delle pagine di Flannery O’Connor e scrive un pezzo struggente, malinconico, carico di desiderio e di dolore, d'ineluttabilità del destino di rottura, della ricerca paradossale e spasmodica di una relazione tanto malata quanto necessaria.
È il racconto di un sogno. Un bambino in una foresta oscura, inseguito da demoni che gli mordono i talloni, corre verso casa facendosi largo tra i rovi che gli lacerano vestiti e braccia. Corre a perdifiato fino a cadere tremante nelle braccia del padre.
Al risveglio quell’uomo si alza deciso a superare ciò che lo separava dal padre e va in quella casa. Ma una donna che non conosce lo accoglie dicendogli che nessuno con il nome di suo padre abita lì.
Una rottura insanabile ormai e un peccato inespiabile segnano il rapporto con il padre. Alla sua ricerca fiduciosa e costante di una dimora paterna Bruce si rassegna ormai a ricevere come unica risposta il vuoto di una faccia straniera.
Living proof
(Lucky Town, 1992, CBS records)
Il rapporto sembra insanabile ma Springsteen non si sentiva soddisfatto del finale di My father’s house. L’occasione del ripensamento e della riscrittura del finale della storia gliela offre proprio il padre.
Prima della nascita del primo figlio, capita che lui venga a trovarlo nella sua casa di Los Angeles: si apre uno spiraglio.
Negli ultimi giorni della prima gravidanza di Patti, ricevetti una visita a sorpresa di mio padre a casa mia a Los Angeles. Aveva guidato per 800 senza preavviso, per bussare alla mia porta. È fatto così.
Quindi alle 11 di mattino eravamo seduti nel salotto pieno di luce a bere le nostre birre. È fatto così. È la colazione dei campioni di mio padre. Quando mio padre, che non è mai stato un campione di parole, farfugliò un: «Sei stato davvero buono con noi». Io annui dandogli ragione. E poi lui disse: «Ma io non lo sono stato con te». E la stanza si fermò. Con mia grande sorpresa l’inammissibile veniva ammesso. Se non lui avessi conosciuto been avere giurato che si stesse scusando. In qualche modo. Ed era così.
Negli ultimi giorni prima di diventare padre, mio padre venne a trovarmi per ammettere i suoi errori e per avvertirmi di non farli con i miei figli. Di liberarli dalle catene dei nostri peccati, di mio padre e me, dei nostri padri prima di noi. Che potessero essere liberi di fare le loro scelte e di vivere le loro vite. (Springsteen on Broadway)
La paternità che ora Springsteen vive in prima persona diventa rielaborazione, esperienza catartica e occasione di riscatto. Ora è libero di diventare un padre diverso per i suoi figli. L’idea di essere destinato a diventare ciò che il padre era, è svanita. Se il padre ammette le sue debolezze, anche lui potrà essere un uomo differente.
In Livin’ proof racconta la nascita del primo figlio come il segno vivente della misericordia di Dio che stava cercando e che l’ha già raggiunto nella confessione di suo padre.
In un mondo sporco e confuso, la nascita di un figlio è prova dell’esistenza di Dio. L’amore e la paternità spazzano via la desolazione e il dolore.
Racconta, nel pezzo, di aver perso la fede in se stesso, di aver deposto cuore e anima, di aver tentato di bruciare ogni traccia di chi era stato e di aver fatto quelle brutte cose che si fanno quando si cerca di perdere se stessi.
Ma ora capisce che la sua era solo una prigione aperta senza guardie, con solo vecchie ombre e un uomo spaventato.
Ne ha trovato la prova vivente.
Long time comin’
(Devils and dust, 2005, CBS records)
Dopo la morte del padre avvenuta nel 1998, si avvia la conclusione della parabola, con una consapevolezza finale della propria storia che ribalta le atmosfere tremende di Adam raised a Cain.
Siamo antenati o fantasmi nelle vite dei nostri figli. O li carichiamo del peso dei nostri errori e li perseguitiamo. O li aiutiamo a mettere da parte questi vecchi pesi e li liberiamo dalle catene del nostro comportamento sbagliato. E camminiamo a loro fianco da antenati. E li aiutiamo a trovare la loro strada e la trascendenza.
Mio padre quel giorno si stava proponendo come antenato nella mia vita dopo essere stato un fantasma per tanto tempo. Voleva che scrivessi una nuova fine al nostro rapporto e voleva che fossi pronto per il nuovo inizio che stavo per affrontare. È stato il momento più bello della mia vita con mio padre. Ed era tutto ciò che mi serviva. (Springsteen on Broadway)
L’immagine è della famiglia in campeggio a un torrente, sotto le stelle, mentre il vento soffia sulle colline e il fuoco crepita scaldando. Parla sottovoce alla moglie che dorme respirando piano.
È tempo di seppellire - dice - la vecchia anima e rinascere nudo come un bambino in una vita nuova.
C’è voluto tanto - continua - ma ora è il momento. Papà era solo un estraneo quando ero bambino, uno che vedevo in giro.
Ora ci sono i miei figli -sussurra - e il mio desiderio più grande è che i loro errori siano solo i loro e i loro peccati siano soltanto i loro peccati.
Accarezza il ventre della moglie che custodisce il terzo figlio, di nuovo si rende conto che dopo tanto il tempo è giunto e promette, infine, di non rovinare tutto e scrivere una storia diversa.
Nel sangue non c’è stata solo maledizione ma anche una benedizione.